FilmUP - Recensione: Savage Grace

Savage Grace
Dalla cronaca nera al grande schermo, passando per la letteratura. Il regista Tom Kalin è esponente del New Queer Cinema e tra i fondatori del collettivo contro l'AIDS ‘Gran Fury’, avendo posto il suo essere gay alla base della propria attività artistica e dell’impegno civile. Aveva esordito con il film ‘Swoon’ (per poi dedicarsi alla produzione e alla sceneggiatura, continuando inoltre a realizzare corti, video e installazioni artigianali e sperimentali) e nel suo secondo lungometraggio di finzione torna al rapporto omosessualità-crimine.
Un padre, una madre e un figlio. L’amore è distorto o assente, in relazioni - quali quelle di coppia e genitoriale - che dovrebbero averlo invece come presupposto. Una famiglia appartenente ad un’alta borghesia che vive di rendita, oziosa, annoiata e artistoide, rappresentata da figure enigmatiche (“non è la persona che è”), tormentate (“ho tante di quelle cose in testa che se le tirassi fuori mi esploderebbe”), e le cui azioni fanno male a sé stesse e alle altre. Un uomo schiacciato dal nome degli avi, freddo e cinico, una donna suicida fallita (figlia di un suicida), dominante su un ragazzo che sviluppa una passione per i maschi e scrive disperate lettere, invocazioni d’aiuto ad un papà allontanatosi da entrambi.
Su suggestioni e particolari intravisti nelle fotografie dell’album di casa Baekeland, Kalin costruisce tre caratteri fragili e morbosi che - nonostante i continui traslochi tra Grande Mela e Vecchio Continente - costringe in interni come in una pentola a pressione. Nel contrasto tra lusso dai modi aristocratici e violenza omicida, indolenti estati assolate e lacerazioni affettivo-psicologiche, si dispiegano le dinamiche di potere che preparano all’ineluttabilità di una tragedia di derivazione classica, verso la quale ci accompagna l’assoluta protagonista Julianne Moore.

La frase: "Ci sta scrivendo una lettera con un altro alfabeto".

Federico Raponi

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