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Quei loro incontri
Da oltre quarant'anni, e sempre con maggiore intensità, Jean Marie Straub assieme alla moglie Daniele Huillet porta avanti un'idea di cinema assolutamente fuori dai canoni tradizionali. Fedeli all'idea che "una storia non può essere illustrata" e che "la narrazione è evocazione", i loro prodotti sono stati apprezzati fino ad oggi quasi esclusivamente da quel che si può considerare un pubblico "d'élite".
Il fatto che "Quei loro incontri" partecipi al festival di Venezia come film in concorso, poteva forse lasciare intendere che qualcosa in loro fosse cambiato. Già però dalla lettura della sinossi si capisce che così non è. Ad essere rappresentati sono infatti gli ultimi cinque episodi di quel "Dialoghi con Leucò" di Cesare Pavese, e di cui avevano già portato sul grande schermo gli iniziali tre in "Dalla nube alla resistenza" nel 1979. Chi l'avesse visto può quindi ben capire a cosa ci si trovi di fronte, per chi invece ne è vergine proviamo a fare un piccolo resoconto.
In ognuno dei cinque episodi due personaggi guardano l'orizzonte in direzioni diverse riportando seccamente il testo. Li vediamo il più delle volte di spalle, fissi, immersi in una campagna che potrebbe essere ovunque. Parlano di miti, di potere, di punizioni e redenzione. Cercano di soppesare ogni parola, spesso prendono lunghe pause poco prima che una frase stia per finire. Il tono è piatto, i gesti inesistenti, così come i movimenti della macchina da presa.
Un modo di fare film radicale che non si capisce perchè mai debba essere considerato bello.
Eppure certa critica in tal modo lo qualifica, senza mai spiegare però il perchè, limitandosi a criptici aggettivi, quasi che gli stupidi, gli ignoranti, siano le persone del pubblico che non capiscono.
Un cinema che non è cinema, e che se anche un tempo poteva avere delle sue ragioni, adesso appare anacronistico. Convinti che la cultura sia anche e soprattutto in questo tipo di approccio antievasivo, Straub-Huillet dimenticano che il cinema per quanto possa definirsi autoriale, non può partire da basi così presuntuose per portare avanti una qualsiasi idea artistica o politica. Non basta riportare un testo importante come quello di Pavese (nient'affatto noioso come il film lo fa percepire) per fare cultura, non se lo si fa in questo modo. Chi e perchè mai dovrebbe pagare un biglietto per vedere questi lunghissimi sessantasei minuti? Per capire cosa? Per appoggiare quale idea?
Un senso di disgusto che sale poi se si considerano le dichiarazioni fatte via lettera da Straub (bloccato purtroppo da seri problemi di salute) e lette qui al Festival durante la conferenza stampa del film. Dichiarazioni (leggere lo speciale interviste) che confermano quanto di negativo si poteva pensare su questo modo di porsi verso chi ancora ha la pazienza di ascoltarli. Visibilità sprecata.
La frase: "...la terra certe volte rivela meraviglie".
Andrea D'Addio
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