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Prince Avalanche











David Gordon Green mette in scena un esperimento interessante: prende “Either Way”, film islandese di qualche anno fa, e, mantenendone la struttura e il tono generale, lo trasforma in un prodotto assolutamente americano nella forma e nell’approccio.
La parentesi “main stream” è evidentemente servita a Gordon Green per assimilare un metodo di racconto che fa del rapporto con il pubblico e della limpidezza del linguaggio elementi fondamentali, e in “Prince Avalanche” applica questa regola in un contesto produttivo decisamente più indipendente rispetto a quello dei suoi ultimi lavori. Ne esce fuori un’opera accessibile e godibile a più livelli, che fa dell’agrodolce il sapore caratterizzante di storia, personaggi e situazioni. E’molto affascinante il contrasto che si va a creare tra la comicità rozza dei due protagonisti, lo scatenato duo Hirsch-Rudd, e una frequente sospensione dell’azione, fatta di parentesi contemplative e momenti profondamente intimi: la forza del film è racchiusa nella sua doppia anima e nella sintesi che Gordon Green riesce a raggiungere tra sensibilità diverse (europea e americana), contesti ed estetica. E, ovviamente, l’affiatamento della coppia protagonista gioca un ruolo fondamentale nella riuscita di questa operazione: Emile Hirsch e Paul Rudd risultano sorprendentemente complementari e colgono l’anima dei loro personaggi, due operai confinati tra le montagne del Dakota, costretti a condividere spazio e tempo insieme, confrontandosi, scontrandosi e poi riavvicinandosi. Il fitto bosco, la strada che si snoda per miglia e miglia tra discese e lunghe pianure segnano uno scarto tra i due protagonisti e il mondo che li circonda, e la loro storia sembra così svolgersi in una dimensione ‘altra’, in un oasi più psicologica che fisica, dove la relazione con l’ambiente diventa un modo per Gordon Green di veicolare disagio, turbamento, appagamento. Per quanto interessante sia l’esperimento alla base del film, i suoi limiti emergono proprio nelle scelte estetiche, che non risultano così libere e originali come dovrebbero (e potrebbero), e lo avvicinano ad un certo cinema indipendente americano che ne soffoca il potenziale dirompente e non esprime fino in fondo la sua vena ‘anarchica’.
Comunque sia, un lavoro interessante che sempre presagire una nuova direzione nel cinema di Gordon Green, molto più personale e stimolante di quanto le sue ultime opere non volessero comunicarci.

La frase:
"Ho detto lei che sei un principe che ha perso il suo regno".

a cura di Stefano La Rosa

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