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Pollock
Ed Harris sceglie uno dei maggiori artisti americani del secondo dopoguerra, per il suo esordio alla regia, e dedica tutto se stesso per riuscire ad entrare nelle profondità tortuose di una personalità che visse sempre in precario equilibrio tra genio e follia. Dieci anni di ricerche e di lavoro attorno ad un artista difficile quanto fondamentale come Jackson Pollock.
Ma dirigendo se stesso Harris non lascia nulla al caso, al contrario, impedisce ogni attrazione tipicamente hollywoodiana nei confronti dell'immagine-cliché dell'artista maledetto. Ne risulta così un ritratto d'artista impressionante e sincero, in cui la vitalità di Pollock e la sua altrettanto vigorosa arte, si stagliano senza ulteriori superflue dinamiche, verso una ricerca dell'autenticità più assoluta.
Harris si sofferma soprattutto sui dettagli che, più rivelatori dei fatti, disvelano l'intima essenza del pittore. Disdegnando le più comuni regole dell'azione, verbale o fisica, il neo-regista affida invece il racconto a lunghi silenzi e ad un succedersi di scene mai frettoloso, assicurando così una migliore comprensione della geniale coesistenza di talento e di malattia mentale, che fu tipica non solo di Pollock, ma anche di molti pittori, antichi e moderni.
Una regia che permette, con straordinaria semplicità, lo sviscerarsi dell'arte avanguardistica del pittore, così prepotentemente rivolta all'istintivo superamento di tutte le teorie che dal cubismo al surrealismo, avevano ribaltato e nuovamente trasformato l'arte regolandola sui canoni di una realtà personale, artistica e sociale in continua mutazione.
La storia (ispirata dal romanzo biografico di Gregory Naifeh e Steven Whitesmit) segue attentamente l'esistenza dell'artista, a partire dal 1941, e procede attraverso gli aneddoti della sua vita evitando egregiamente l'idealizzazione appassionata: e così gli attacchi di isteria o le tavole imbandite buttate all'aria e persino la scena del pittore che orina nel caminetto di Peggy Guggenheim durante un party, non risultano mai scene esasperate ed esasperanti.
Ma ancor più del regista, è l'Harris-attore che manifesta la forza e la disperazione intima ed esteriore del pittore. Il caos emotivo e artistico di quest'ultimo trovano una straordinaria espressione nel viso contratto dell'attore, illuminato da una mutevole e formidabile tavolozza di sentimenti, spesso così dolorosamente contraddittori.
Valeria Chiari
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