Le streghe di Salem
Come i fan irriducibili del cinema di paura potranno ricordare, l’idea del disco in vinile che, suonato al contrario, arriva a diffondere qualcosa di malvagio era già stata sfruttata all’interno di “Morte a 33 giri” (1986) di Charles Martin Smith; ma, a differenza di quell’horror cult appartenente al decennio reaganiano, il quinto lungometraggio cinematografico diretto da Rob Zombie (all’anagrafe Robert Bartleh Cummings) non tira in ballo cantanti heavy metal defunti e tornati dall’aldilà, bensì onde ipnotiche che fanno perdere in maniera graduale il contatto con la realtà ad Heidi Hawthorne alias Sheri Moon Zombie, famosa dj di una radio di Salem impegnata a disintossicarsi dalla droga.
Perché, con un iniziale flashback ambientato nel 1692 durante la condanna a morte di sette donne accusate di praticare la stregoneria e di invocare il demonio, l’intento dell’autore de “La casa dei 1000 corpi” (2004) e del suo sequel “La casa del diavolo” (2005) è quello di mettere progressivamente in scena ciò che una delle megere promise al giudice alla vigilia dell’esecuzione; ovvero che sarebbero tornate in forma di spettri a perseguitare la città e che, proprio attraverso colui che le aveva fatte giustiziare, Satana si sarebbe propagato nel posto.
E, prendendo le distanze dai suoi precedenti lavori dietro la macchina da presa, non lo fa ricorrendo a sequele di sadici omicidi e ultra-violenza, ma privilegiando un’atmosfera che, già a partire dai primi minuti di visione, rievoca in maniera efficace quelle di diversi prodotti analoghi sfornati nei brutti, sporchi e cattivi anni Settanta, forte anche della splendida fotografia per mano di Brandon Trost.
Un’atmosfera che, man mano che vengono coinvolti lo storico della città di Salem Francis Matthias, con le fattezze del Bruce Davison di “Willard e i topi” (1971), e le anziane Lacy, Megan e Sonny, trio di sorelle interpretate dalle veterane Judy Geeson, Patricia Quinn e Dee Wallace, non tarda a rivelarsi l’elemento vincente dell’intera operazione; tanto da non permettere allo spettatore di distogliersi nel corso della lentissima, lunga attesa nei confronti di quello che si presenta come un vero e proprio delirio visivo finale.
Delirio visivo degno delle folli menti di Ken Russell e Alejandro Jodorowsky e che, tra immagini blasfeme ed abbondanza di nudità, pur rischiando di snaturare tutto il fascino vintage respirato fino a poco prima del suo arrivo, non toglie la piacevole impressione di aver appena assistito a uno spettacolo di celluloide che manifesta, appunto, proprio il sapore di un vecchio vinile.
Quel sapore che da un lato testimonia forse l’opera più matura di Zombie, dall’altro potrebbe lasciare delusi coloro che sono cresciuti nella poco artistica epoca digitale dei cd e, peggio ancora, dei file audio.
La frase:
"Partorisci questo nuovo mondo con il seme benedetto della tua gloria".
a cura di Francesco Lomuscio
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