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Le ferie di Licu
Di fronte ad un cinema sempre raccolto su sé stesso e su quello che si presume il pubblico voglia, con la sua processione d'incontri romantici, tradimenti e amori liceali, si sta profilando sempre di più un'alternativa indipendente sia a livello artistico che produttivo. Vengono così realizzati dei prodotti che cercano di guardare in modo lucido e disincantato alla nostra contemporaneità, riprendendo una serie di tematiche apparentemente di moda, ma di cui di fatto non si parla mai abbastanza: diversità, integrazione, multiculturalismo e solitudine dell'individuo.
Con "Le ferie di Licu" Vittorio Moroni firma la sua seconda regia avvalendosi di un sistema produttivo al di fuori degli schemi. Grazie all'istituzione di un'associazione culturale (la Myself), il regista e la sua équipe si sono imbarcati nell'impresa davvero avventurosa dell'autodistribuzione. Tale intento si è concretizzato in un vero e proprio "patto con il pubblico", che è diventato in un certo senso "azionista" delle pellicole di Moroni. Questo sistema era già stato sperimentato con successo con il primo lungometraggio "Tu devi essere il lupo".
"Le ferie di Licu" è un film in bilico tra il documentario ed il cinema di finzione vero e proprio, realizzato senza una sceneggiatura e quindi in continua evoluzione. All'inizio delle riprese il regista voleva raccontare la storia di Licu, ragazzo del Bangladesh sospeso tra ansia di occidentalizzazione e tradizionalismo, immigrato regolare che lavora dodici ore al giorno per mettere da parte qualcosa. Doveva quindi essere una storia di sfruttamento e speranza all'ombra della schizofrenia di chi si trova a vivere in un ambiente culturale diverso da quello di origine. Poi Licu riceve una lettera: i suoi genitori hanno individuato per Licu una ragazza bengalese che il giovane dovrà sposare.
Allora il film prende una piega diversa e diventa uno studio sul senso dell'amore e della libertà in una prospettiva diversa da quella alla quale siamo abituati.
Si può amare senza conoscere veramente qualcuno? Inoltre Licu, si sente costretto per via della sua educazione a lasciare sua moglie a casa, impedendole non solo di lavorare (circostanza addirittura impensabile) ma di seguire corsi di lingua italiana e di avere amiche. C'è più di una scena in cui Fancy, la giovane sposa di Licu guarda dalla sua finestra sulla via del Prenestino in cui abita. Questo scorcio non è tanto uno sguardo su un sogno o su un desiderio, quanto una vista sull'impossibile: per Fancy l'emigrazione assume sempre più il sapore di una prigionia che rimanda la mente continuamente alla propria terra di origine, come in una specie di circolo vizioso.
Moroni rifugge però da ogni intento etnografico o di colore, persino nelle sequenze ambientate in Bangladesh, e cerca di restituirci lo sguardo di questi non-attori che però dichiarano con forza la loro situazione ed il loro disagio di fronte a un mondo che sta cambiando ad una velocità impressionante, lasciando gli uomini e le donne impreparati a tali trasformazioni.
La frase: "Ha i denti davanti troppo lunghi, ma si potranno sistemare"
Mauro Corso
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