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La prima luce







Ma come è piccolo il nostro mondo (nozione onnicomprensiva). Marco e Martina conducono un'esistenza parzialmente serena a Bari, assieme al figlioletto Mateo (con una “t”?) di sette anni. Appartamento vivibile e grazioso con vista sul porto, impieghi lavorativi sicuri, una vita di stabilità presunta, perché gli spettri della malinconia logorano nel profondo Martina da troppo tempo. Il meccanismo drammatico, infatti, si innesca solo e unicamente grazie all'insofferenza della donna-madre, una giovane argentina (Daniela Ramirez) sull'orlo di una crisi depressiva così marcata da maturare la decisione di abbandonare il marito e tornare al suo paese portando con sé il figlio. Il film proprio per questo si concentra (per quasi due terzi della durata totale) sull'esperienza frustrante di Marco (un Riccardo Scamarcio ben lontano dalla consacrazione) nella terra natale di Martina alla ricerca del figlio, in perenne conflitto con tribunali, udienze, avvocati e un burbero investigatore privato.
Riassumendo in modo rapido l'apparato narrativo, per la prima mezz'ora i due coniugi si spupazzano il piccolo Mateo privatamente e singolarmente, riempiendolo di baci in relazione al proprio umore (in location che talvolta hanno del potenziale lirico); per l'ora che resta il piccolo scompare, Scamarcio prova a diventare un personaggio a tutto tondo e ne esce una specie di percorso formativo dell'uomo alla ricerca di una “giusta scelta” per sé e per i suoi affetti del presente e del passato.
Il lavoro di Marra sembra partire dalla necessità di affondare bene il colpo nel cuore del sud della nostra penisola, tentando di riflettere (rigirando con cura la lama) su tutte le incomprensioni emotive di un piccolo nucleo familiare e sul loro rapporto con l'accennata (ma ben presente) crisi economico-sociale del paese.
Sulla scia della volontà precisa di contestualizzare la vicenda (perlomeno nella prima parte, quando ci si muove ancora dentro ai confini italiani), l'opera tenta di scardinare una serie di conflitti etici ed etnici, lavorando sullo scarto culturale tra Scamarcio e la moglie e su una presunta difficoltà a stabilire i termini morali e giuridici sulla base dei quali lo spettatore dovrebbe “giudicare” la coppia.
L'esito tuttavia lascia un briciolo di patetismo per gli evidenti limiti della struttura che Marra ha architettato. Il costrutto verbale è scollato, frammentario, disunito, spesso macchinoso (tanto quanto le scelte visive) e tremendamente tendente al macchiettismo di quel dramma familiare che potrebbe riuscire meglio in prima visione su qualche televisione commerciale il martedì sera. Le interpretazioni di Daniela Ramirez e di Scamarcio non impressionano particolarmente, anzi rischiano spesso di irritare con tonalità stucchevoli e spesso e volentieri fuoriluogo.
In linea più generale non è chiaro se i limiti siano unicamente di carattere tecnico o più semplicemente (ma drasticamente) di incoerenza tra l'universo concettuale-poetico del regista (che può essere interessante e stimolante, anche perché il soggetto non è a priori da buttare, anzi) e la sua realizzazione effettiva, la sua trasfigurazione in un prodotto visivo che vorrebbe forse far riflettere ma rischia di assopire e complessivamente deludere.

La frase:
"Il futuro ce lo facciamo da soli, passo dopo passo".

a cura di Riccardo Favaro

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