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La pelle che abito
Trama intricatissima per Pedro Almodóvar che, con La pelle che abito, si inoltra nel terreno dell’horror/thriller e del noir, senza mai perdere di vista i suoi colori e tratti di regia.
C’è un chirurgo plastico, Robert Ledgard che, dopo anni di ricerche, ha scoperto il segreto per la "creazione" di una pelle artificiale, capace di resistere alla bruciature e alle punture di insetti. E c’è una bellissima donna, prigioniera dell’uomo, che trascorre le sue giornate da sola, chiusa in una stanza, a scrivere sui muri, fare yoga e scolpire, in una magione di lusso, El Cigarral.
Il film si apre con una lunga e insistita carrellata su provette, campioni di sangue e sul corpo della donna. Poi il flashback, in un intento di spiegazione che non è mai così lineare in Almodóvar: una moglie morta per le ustioni riportate in un incidente stradale, una figlia violentata, un uomo - il chirurgo - reso pazzo dal dolore e cieco per l’istinto di vendetta, inviso, per i suoi esperimenti transgenici, alla comunità scientifica. La realtà poi sarà differente: per esempio differente da quella che il dottore si è figurato. Ma dire troppo sarebbe un vero peccato.
È un film che ammalia, come sempre sa fare Almodóvar, che riesce a farci inorridire e ridere, forte anche di una cura formale che ricalca i topoi del suo autore; con un attore, Antonio Banderas, che ritorna dopo dodici anni (Legami!) a lavorare con il regista castigliano, regalandoci una figura di uomo algido, compassato, che nasconde in sé un mostro, una crudeltà che neppure il più grande dolore può giustificare.
Letture molteplici, riferimenti all’oggi, alla medicina estetica, alle mutazioni genetiche, soprattutto riflessioni sul dentro e fuori dell’essere umano, che non è - solo - corpo e pelle, che ha pensieri e intenzioni che sono influenzati dal sesso, ma che lo travalicano.
Almodóvar riesce a trasmettere il gelo della mente di Ledgard, novello Frankenstein, gelo che la casa pare condensare, nella sua perfezione di forme moderne, in cui tutto ha un ordine preciso e meticoloso. Il surreale e il grottesco sono sempre lì, tra le pieghe del film, così come i temi cari al regista e la trama complessa, dalle svolte continue: la pecca, che lo rende un film non perfettamente riuscito, sta nella sensazione di uno studio a tavolino, in cui il cuore passa poco e trasmette ancora meno.
Per il resto, da vedere senz’altro. Con una sensazione di freddo che vi scorrerà sulla pelle.
La frase: "Mi taglierò la gola, così non avrai più il tuo giocattolo".
Donata Ferrario
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