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Cogan - Killing Them Softly











Dura la vita della Mala americana in tempi di recessione! Mentre Obama e Bush si scontrano a suon di promesse al popolo, e alla nazione, che ha ideato e glorificato l’American Dream, le gang criminali devono vedersela con le bravate dell’ultimo "impresario" improvvisato, che ha provato a racimolare con l’inganno il suo gruzzoletto sporco, e con il listino prezzi dei serial killer fidati.

L’attempato Johnny Amato (Vincent Curatola, il grande Johnny Sak dei "Sopranos") assume il lavatello disagiato Frankie (Scoot McNairy) e il suonato Russell (Ben Mendelsohn), che ruba cani mentre aspetta di diventare uno spacciatore di successo, per un furto a casa di Markie Trattman (Ray Liotta), che regolarmente ospita bische clandestine.
L’uomo è convinto che Trattman, responsabile di una precedente truffa, verrà nuovamente incolpato e lui riuscirà così a farla franca. Inizialmente l’organizzazione criminale, che ordina attraverso un anonimo autista (Richard Jenkins), crede, infatti, che Markie debba essere punito in maniera esemplare e assume l’esperto e cinico Jackie Cogan (Brad Pitt) per risolvere il caso e restaurare l’ordine (le partite di poker sono state interrotte e con loro anche il giro di denaro). Cogan scopre però la verità e, per dare la caccia ai veri colpevoli, chiede aiuto al collega Mickey (James Gandolfini, altro superbo divo dei "Sopranos") per eseguire un doppio omicidio, ma l’uomo, distratto dal sesso e dall’alcol, si rivelerà per lui un altro problema.

Pulp politico al rallenty "Cogan - Killing Them Soflty" è un film moderno ma pretenzioso che prova a reinventare la messa in scena dell’action comico dei fratelli Coen con orpelli visivi (la sequenza dell’esplosivo assassinio di Liotta e delle allucinazioni di Mendelsohn per esempio) che emulano faticosamente il dinamismo di serie cult come CSI. Una buona dose di sangue e una minima di scontri a fuoco lasciano intravedere le "cattive" intenzioni del regista del western "L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford", Andrew Dominik, qui al suo terzo lungometraggio per il cinema.
Ma l’errore commesso resta lo stesso: l’opera sembra priva d’anima! Dall’inizio alla fine tenta in tutti i modi, con sgraziata nonchalance, di metterci sotto gli occhi un insistito e azzardato parallelo tra il teatrino politico ed economico e quello della criminalità nell’unico segno comune della solitudine individualista, che demolisce l’illusione comunitaria su cui si baserebbe la cultura americana. Per inseguire il suo obiettivo Dominik, che firma anche la sceneggiatura, non a caso adatta provocatoriamente il romanzo noir di George V. Higgins, ambientato nella Boston degli anni ‘70, e sposta le lancette nel 2008, quando, tra i vicoli di New Orleans, si aggira lo spettro del capitalismo.

Se l’affare, per adottare quella mentalità aziendale che dirige ogni mossa del mondo criminale, non è fatto e il film, come i politici additati, non mantiene la sua promessa agli spettatori, ci pensa il cast a risollevare il pubblico da qualche sbadiglio di troppo. Non si può resistere all’ennesimo Brad Pitt sicario, un assassino professionista che storce il naso quando gli dicono che i boss non possono più permettersi di pagare la prima classe e che non vuole piegarsi alle nuove regole del gioco in tempi di crisi economica: il rilancio del tariffario come al mercato. Per la seconda volta diretto da Dominik nei panni di un bandito che sbeffeggia perfino Thomas Jefferson la star hollywoodiana si contende le nostre simpatie insieme a Scoot McNairy, sorprendente nei panni del giovane codardo e patetico, ma non basta, da sola, a consegnare questo thriller al neo-tarantinismo

La frase:
"Io vivo in America e in America sei solo".

a cura di Angela Cinicolo

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