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J. Edgar











Caparbio, manipolatore, ossessivo, egocentrico, solitario, duro, megalomane. Sono alcuni tra gli aggettivi giusti per descrivere J. Edgar Hoover, figura seminale ma controversa che ha costruito negli anni l’attuale FBI (inizialmente "Bureau of Investigation") scombinando il sistema di leggi federali e anticipando le scoperte della scienza forense. Chi fosse realmente quest’uomo così temuto e misterioso prova a raccontarlo, con la sceneggiatura del trentasettenne Dustin Lance Black (già acclamato con "Milk"), Clint Eastwood, cresciuto nel corso degli interminabili quarantotto anni di mandato Hoover e interessato a osservare – come gli era già capitato in "Bird" e "Invictus" – la corrispondenza tra relazioni e azioni di uomini realmente esistiti.
Attraverso i ricordi di un J. Edgar (Leonardo DiCaprio) invecchiato, il racconto si snoda su due piani temporali in un viaggio nella storia americana che abbraccia gli episodi chiave della vita professionale dell’uomo. Dalla rivoluzione investigativa della sua gestione, alla lotta-fisima al comunismo, passando per la cattura del “nemico pubblico” John Dillinger e dal rapimento Lindbergh (trampolino per l’accreditamento definitivo del Bureau), fino alle indagini sporche sulle Black Panthers, Martin Luter King e i dossier confidenziali sugli uomini di potere.
Quello che però affascina il regista americano è, come accennato, la personalità di Hoover e i suoi intimi rapporti con le persone chiave della sua vita: sua madre Anne Marie (Judi Dench), la fedele assistente Helen Gandy (Naomi Watts) e soprattutto il legame – ambiguo e irrisolto – con il braccio destro Clyde Tolson (Armie Hammer).
La presenza di mamma Hoover è ingombrante: possessiva, arrivista, autoritaria nell’instillare i "buoni principi", tra cui l’amore per quelle donne che J. Edgar tenta svogliatamente di sedurre più per dovere che per piacere (la sequenza del ballo "ex post" è sublime per descrivere gli equilibri psichici di madre e figlio). La stessa Helen diventa sua segretaria personale dopo aver rifiutato – all’interno della maestosa Library of Congress – una frettolosa proposta sentimentale raffreddatasi sul nascere. Nei confronti di Clyde Tolson nasce subito un sentimento di ammirazione (Tolson è molto intelligente ma anche più bello, alto ed elegante dell’esteta e insicuro Hoover) che gli vale assunzione immediata e successiva promozione a numero due dei Servizi. La narrazione si sofferma insistentemente sui due uomini. La loro attrazione è palpabile a ogni scena e sembra autenticare le voci – mai confermate – sulla presunta omosessualità di Hoover e sul legame particolare con un Tolson a lui attaccato morbosamente (si veda il concitato episodio della lite per gelosia).
Eastwood si muove nel corso della lunga durata della pellicola tra picchi e cadute ma con la consueta sensibilità riesce a fare emergere la profondità del protagonista, interpretato con fervore da Leo DiCaprio, imbalsamato in un trucco forse non all’altezza (comunque accettabile rispetto al gommoso make-up di Hammer) e vestito con cura maniacale dai costumi della scrupolosa Deborah Hopper (in passato premiata per "Changeling" e "Gran Torino").
Per chi scrive, l’aspetto più interessante del lavoro è la grande attualità della vicenda. Hoover è stato un mistificatore della realtà, un eccelso imbonitore dei media. Un uomo bramoso di gloria che amplificava il suo operato ergendosi sempre a "eroe", nascondendo bene gli scheletri nell’armadio pieni di reiterate violazioni dei diritti civili. Se c’è una debolezza in “J. Edgar” è proprio quella di aver glissato sull’analisi storico-politica, generando uno strambo biopic diluito in un melò omosessuale, certamente toccante ma altrettanto indeciso sul registro narrativo da seguire. Per alcuni potrebbe non essere un difetto e, viceversa, il fatto che il regista dagli occhi di ghiaccio sia riuscito a rimanere in bilico tra questi temi scivolosi ha valore positivo nel giudizio finale. Ma non importa. Un nuovo film di Clint Eastwood va salutato con entusiasmo a prescindere da ogni valutazione personale perché possiede una delicatezza e un calore rari. Chi saprà coglierli (dal 4 gennaio, ndr) inizierà l’anno un po’ più felice.

La frase:
"Anche i grandi uomini si possono corrompere".

a cura di Nicola Di Francesco

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