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Jay
Nella sezione "Orizzonti" della 65esima edizione del Festival di Venezia viene presentato al pubblico: "Jay", opera di un giovane autore filippino Francis Xavier Pasion, che dopo numerosi lavori per il grande e piccolo schermo arriva a far parlare di sé a livello internazionale. E’ la storia di Jay, giovane insegnante di lingua inglese che viene trovato morto nel suo appartamento, colpito alla schiena da otto coltellate. Subito appare come un omicidio a sfondo sessuale, il cui colpevole dovrebbe forse essere un massaggiatore. Date le premesse l’opera potrebbe apparire come un poliziesco, ma in realtà c’è dell’altro ossia la visione distorta del mondo della televisione, disposta a tutto, anche a sfruttare il dolore di povere persone, pur di raggiungere il tanto agognato "audience". Prima ancora che la famiglia della vittima venga a sapere dalla polizia della morte di Jay, un produttore televisivo, interpretato da Bairon Geisler, fa irruzione in casa con la sua troupe, nel tentativo di avere l’esclusiva delle interviste e poter catturare i momenti salienti del dolore. Decisamente abile con le parole il rampante produttore riesce a convincere la madre della vittima che la messa in onda delle riprese sicuramente farà emergere la verità sul delitto e spingerà l’assassino a consegnarsi o i genitori del colpevole a denunciare il figlio. Inizia così la stramba avventura di questa troupe che cerca di presentare Jay, di far luce sulla sua personalità e la sua storia, sottolineando il dramma di queste persone che contavano sul suo stipendio per poter migliorare la propria condizione di vita. Una famiglia sfortunata che ha perso quasi ogni cosa nel 1994 con l’eruzione del vicino vulcano. Tutto si svolge durante i giorni di Quaresima, sottolinenando i diversi stati d’animo dei protagonisti, che vanno mano a mano cambiando, fino a raggiungere il loro acme e la stabilità dei sentimenti, derivata dalla rassegnazione della perdita, proprio il giorno di Pasqua. Un simbolismo chiaro ed evidente da parte del regista che "punta il dito" scherzosamente sul mondo della televisione e dei reality show, dove si è disposti a tutto pur di piacere al pubblico. Ecco quindi il giornalista che cerca, per esempio, di convincere la madre della vittima a ripetere lo strazio alla vista del figlio morto in obitorio, solo perché la pellicola era rovinata. E’ un film nel film, dove il tempo si confonde, attraverso il mescolarsi di diversi livelli temporali e di immagine o situazione: il primo legato a cosa sia veramente successo, il secondo a cosa sia stato catturato dalla telecamera della troupe e a cosa stia facendo/girando questa troupe. Si potrebbe perfino definire un documentario nel documentario, dove è documentata una realtà quotidiana decisamente ed irrimediabilmente diversa da quella del "Grande Fratello", cui si lega la tematica dell’omosessualità, che sebbene non sia più bandita come una volta, ha ancora diverse barriere da superare e abbattere. In definitiva è una denunicia, attraverso gli stilemi della farsa, accompagnata dallo sguardo ironico e divertito del regista, di come la televisione spesso racconti una storia diversa dalla realtà, definendola però anch’essa "realtà". Questo spirito satirico del film si fa mano a mano più prorompente fino alla conclusione finale in cui la storia si interrompe bruscamente, affermando e sottolineando che era tutto un’illusione.
Interessante l’idea e il modo di narrare la storia, forse il troppo ricorrere a sbalzi temporali aggiunge qualche problema di fruizione dell’opera, oltre ad appesantirla e rallentarla.
La frase: "Questi pulcini, mentre beccano i chicchi di riso possono anche beccare l’anima di chi ha ucciso mio nipote".
Federica Di Bartolo
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