Il volto di un'altra
Immersa in una leggera nebbia, la sequenza d’apertura, con un manipolo di misteriosi individui dai volti nascosti sotto bianche bende impegnati a camminare nel bosco, rievoca immediatamente suggestioni horror.
In realtà, però, con Laura Chiatti nei panni di Bella, esuberante conduttrice di un famoso programma televisivo licenziata perché il pubblico è stanco di vedere la sua faccia e che, sulla via di ritorno a casa, rimane sfigurata in un grottesco incidente automobilistico, rientra tutt’altro che nel genere caro a Dracula e Freddy Krueger il quinto lungometraggio diretto dal napoletano classe 1960 Pappi Corsicato, a quattro anni da “Il seme della discordia” (2008).
Infatti, mentre troviamo anche la sua attrice-feticcio Iaia Forte nel ruolo di una suora, in un primo momento, tutt’al più, si possono scorgere evidenti similitudini con il dramma a tinte thriller “La pelle che abito” (2011) di Pedro Almodóvar, complice il fatto che la protagonista sia intenta a farsi ricostruire dal marito chirurgo René alias Alessandro Preziosi un volto totalmente nuovo per vendicarsi di chi la dava finita e riconquistare il suo pubblico.
Del resto, considerando che, per il popolare cineasta spagnolo, Corsicato fu assistente volontario sul set di “Legami!” (1990), non c’è da stupirsi se dalla pellicola interpretata da Antonio Banderas ed Elena Anaya sembra essere recuperata anche la propensione per interni caratterizzati da un quasi asettico bianco dominante.
Anche se qui la vicenda narrata arriva a prendere tutt’altra piega, rivelandosi una riflessione su celluloide relativa a un mondo di finzione tempestato di chirurgia plastica, media e spettacolarizzazione della cronaca i cui personaggi sono artefici e vittime al tempo stesso; tanto che il regista spiega: “L’essere e l’apparire non sono più in contrapposizione ma, anzi, in un generale caos di insensatezza, si sovrappongono e conducono a risoluzioni inaspettate o imponderabili”.
Riflessione su celluloide visivamente interessante, grazie anche all’apporto della bella fotografia di Italo Petriccione, ma che, dopo un avvio decisamente accattivante e movimentato che non risparmia neppure di sfoderare sequenze proto-cinema muto, tende all’infiacchimento strada facendo, spostandosi sui binari della solita storia di truffe.
E a nulla servono i consueti tentativi corsicatiani – con a suo modo simbolica pioggia di escrementi – di rendere folle un insieme tanto banale quanto sconclusionato, la cui dichiarata intenzione era quella di apparire come una rivisitazione in chiave acida e contemporanea delle commedie di Billiy Wilder e dei melò alla Douglas Sirk.
La frase:
"Perché il cambiamento è vita e la vita è il coraggio di saper cambiare".
a cura di Francesco Lomuscio
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