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Il mistero della casa del tempo

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio28 ottobre 2018Voto: 6.0
 

  • Foto dal film Il mistero della casa del tempo
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A ricordarci che siamo nella New Zebedee del 1955 non provvede tanto un cinema le cui insegne avvisano esservi proiettato lo “Space man from Pluto” che, mai esistito ma che suona molto anni Cinquanta, altro non fu che il titolo proposto da Sid Sheinberg degli Universal Studios per quello che sarebbe poi divenuto “Ritorno al futuro” di Robert Zemeckies, bensì la intramontabile “Long tall Sally” di Little Richard all’interno della colonna sonora.

Una colonna sonora che, al di là delle storiche hit del passato, a firma di Nathan Barr richiama non poco le sonorità elfmaniane di “Edward mani di forbice” nell’accompagnare l’avventura intrapresa dal piccolo orfano Lewis Barnavelt incarnato da Owen Vaccaro una volta trasferitosi nella vecchia e scricchiolante casa dello zio Jonathan, dove si trova a dover scoprire l’origine e il significato di un orologio nascosto da qualche parte nelle mura dell’abitazione.
Uno zio Jonathan dalle fattezze di un Jack Black affiancato da Cate Blanchett nei panni della sua migliore amica, la signora Zimmerman, entrambi potenti maghi che, come un po’ tutta la lugubre ma fanciullesca ambientazione, sembrano usciti direttamente dai “Piccoli brividi” di R.L. Stine, non a caso interpretati nelle loro trasposizioni su grande schermo proprio dal protagonista di “Amore a prima svista” e “School of rock”.

Come pure elementi quali giocattoli che prendono vita e zucche di Halloween che arrivano addirittura a vomitare nell’infarcire d’ironia rivolta per lo più al pubblico dei bambini una oltre ora e quaranta di visione che, impeccabile dal punto di vista tecnico e visivo (come nel caso di qualsiasi produzione Amblin che si rispetti, del resto) ma non eccessivamente coinvolgente per quanto riguarda il ritmo di narrazione, racchiude la maggior parte del proprio fascino nell’allegoria antibellica e relativa alla sete di potere leggibile tra i fotogrammi.
Perché, se da un lato l’Isaac Izard – ex amico di Jonathan – dal volto di Kyle MacLachlan, pronto a tornare come zombi parlante in vena di distruzione dell’umanità, apprendiamo che sfoderò una certa pazzia soltanto dopo essere partito per la guerra, dall’altro il rapporto tra Lewis e il coetaneo Tarby alias Sunny Suljic pare essere dettato da quanto quest’ultimo necessiti di voti e appoggi per essere eletto rappresentante a scuola.

Man mano che, reduce dalla sua rilettura de “Il giustiziere della notte” e lontano da squartamenti ed estrema violenza che lo hanno reso uno dei cineasti di punta dell’horror d’inizio XXI secolo, dietro la macchina da presa il bostoniano classe 1972 Eli Roth – qui anche scovabile nelle fugaci apparizioni come camerata Ivan nel telefilm su Capitan Mezzanotte – trasporta verso una spettacolare fase conclusiva riecheggiante anche determinati lavori di Tim Burton (più “Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali” che “Beetlejuice – Spiritello porcello”, in realtà).
Ribadendo che la magia nasce in noi dall’interno e lasciando soddisfatti, senza eccellere, soprattutto gli spettatori più piccoli.


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