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Il giustiziere della notte

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio05 marzo 2018Voto: 6.0
 

  • Foto dal film Il giustiziere della notte
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Con le baffute fattezze del mitico Charles Bronson e impegnato a fronteggiare la combriccola di un boss mafioso, l’ultima volta abbiamo avuto modo di vederlo in azione nel tutt’altro che disprezzabile “Il giustiziere della notte 5” di Allan A. Goldstein, concretizzatosi sette anni dopo la piuttosto anonima lotta ai trafficanti di droga intrapresa ne “Il giustiziere della notte 4” di Jack Lee Thompson e nove più tardi rispetto alla vera e propria guerriglia urbana scatenata nell’esageratissimo “Il giustiziere della notte 3” di Michael Winner.
Ma, sempre sotto la regia di quest’ultimo, prima ancora di tornare all’opera nel riuscito “Il giustiziere della notte 2”, datato 1982, fu nel 1974 che esordì sul grande schermo la figura dell’architetto Paul Kersey, destinato a trasformarsi nell’ammazza-delinquenti più famoso della Settima arte dopo essersi ritrovato la moglie uccisa dagli stessi individui che hanno stuprato la figlia.

Un autentico classico del cinema dal grilletto facile che, tratto dal romanzo “Il giustiziere della notte” di Brian Garfield, a differenza dei suoi citati sequel d’influenza chiaramente reaganiana non descrisse la vendetta in qualità di giusto atto liberatorio, bensì sfoderò una morale (in un certo senso ambigua) che sembrava quasi condannare, in fin dei conti, tutta la violenza cui il protagonista aveva fatto ricorso per ripulire le strade dai poco di buono.
Una morale che, probabilmente complici sia il forte clima di giustizialismo trasmesso dalla presidenza Trump, sia il sempre più dilagante timore di vivere in un mondo sprotetto e facilmente vittima, di conseguenza, di terrorismo e scempi assortiti, scompare del tutto in questa nuova versione d’inizio terzo millennio a firma dell’Eli Roth cui si devono, tra gli altri, i primi due “Hostel” e il cannibal movie “The Green inferno”.
Perché, fornito di un evidente (sotto) testo relativo alla facilità con cui negli Stati Uniti sia possibile procurarsi armi da fuoco, è, semplicemente, un secco revenge movie basato sulla progressiva eliminazione di malviventi comprendenti anche coloro che hanno aggredito in casa la compagna e la figlia di Kersey – rispettivamente interpretate da Elisabeth Shue e Camilla Morrone – ad occupare la oltre ora e quaranta di visione.

Un Kersey che, in questo caso medico chirurgo e sprovvisto dei classici mustacchi, possiede i connotati di un calvissimo Bruce Willis abbigliato con felpa dal cappuccio e propenso ad imparare l’”arte” dello sparo attraverso internet, in quanto immerso nell’epoca dei social network e dei video realizzati tramite smartphone per essere poi condivisi in rete.

E, se la già menzionata sequenza dell’aggressione casalinga risulta molto più breve e meno cruda e impressionante rispetto a quella inscenata nel capostipite, il regista – che include nel cast anche il veterano Vincent D’Onofrio – non dimentica la sua fama legata al torture porn e allo splatter in fotogrammi nel far prendere forma alla mattanza di cattivi.
Infatti, se da un lato la resa dei conti conclusiva rientra tra i momenti migliori di questo non eccelso ma sufficientemente godibile rifacimento, dall’altro è molto difficile che lo strazio su un nervo sciatico eseguito tramite olio per freni e il sanguinoso schiacciamento di un cranio scompaiano in fretta dalle menti degli spettatori una volta giunti ai titoli di coda.


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