Uibù - Fantasmino fifone
Quanto può essere fuorviante la fantasia. Stando al sottotitolo dell’edizione italiana (“fantasmino fifone”) non ci si aspetterebbe uno spettro adulto, anche se un pò basso, ma un piccoletto timoroso.
Baldovino invero era - in vita - baro, corruttore, rompiscatole e continua ad esserlo anche dopo che un fulmine, di venerdì 13 del 1599, lo ha incenerito. Sbalordisce però, nel doppiaggio di un’opera destinata ad un pubblico molto giovane, l’ipotetico omaggio alla commedia pecoreccia nostrana anni ’70: “che bello il kaiser” (sic!).
“Hui buh – das schlossgespenst” rappresenta da almeno trent’anni un fenomeno tutto germanico, diffuso in oltre 25 milioni tra dischi, cassette e audiolibri, e dalla cui storia è stata tratta una delle serie radiofoniche di maggior successo di sempre. Film con attori in carne ed ossa ed un personaggio in computer grafica, l’interesse maggiore di “Uibù” sta nella parte più originale, all’interno della città dei fantasmi (che riconoscono gli umani dall’odore della paura), dove la sicurezza è garantita da soldati tedeschi morti nella Prima Guerra Mondiale. A Baldovino, cui è stata bruciata la “patente di fantasma fetente”, vengono requisite le catene sferraglianti (lo strumento base per spaventare) da un mostruoso e spietato agente che gli concede 48 ore per sostenere nuovamente gli esami, altrimenti finirà squagliato nella zuppa delle anime. Vige la burocrazia quindi, con elaborazione di dati ectoplasmatici, documenti (con voce sulla causa del decesso), questionari, computer per informazioni (“per altre domande sull’aldilà e senso della vita, prego prema asterisco”). Per i resto, la pellicola soffre di una comicità polverosa di smorfie, cadute, urtare e rompersi di oggetti, con aggiunta di rutti e scorregge. In un calderone che recupera cenerentole, possessioni e acchiappafantasmi.
La frase: "Come diventare professionista della paura con la vitamina B12".
Federico Raponi
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