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Fires on the Plain









Due uomini che si confrontano, esplosioni, la giungla, urla di dolore. “Fires on the Plain” inizia senza perdere tempo e portando lo spettatore nel bel mezzo di una guerra, quella del Giappone contro le Filippine al termine del secondo conflitto mondiale, filtrata dalla sguardo e dal corpo di un soldato (Tsukamoto, il regista) che deve attraversare pianure e foreste per raggiungere un accampamento in cui rifugiarsi.
Più che la storia di uno o più personaggi, “Fires on the Plain” sembra un’indagine sulla guerra e sui suoi effetti: il film ha sì una sua essenziale, scheletrica linea narrativa, ma il dipanarsi della vicenda è strutturato secondo una successione di eventi e allucinazioni che ci mostrano l’esperienza della guerra come un vero e proprio incubo. Il soldato Tamura si ritrova nel bel mezzo di una trappola nella quale non c’è un inizio e non c’è una fine, i momenti di pausa sono rari ed effimeri, l’orrore strangola corpi e cervelli.
Ci si rende conto, dopo poco tempo, che non ha senso cercare la classica progressione narrativa ‘a tappe’, perché qui non c’è sviluppo, non c’è crescita né maturazione, ma soltanto rapide salite e discese emotive, le declinazioni possibili del disgusto, un girare attorno continuo, senza meta e senza uscite.
Se la ricerca di Tsukamoto è sempre andata in direzione del corpo e della sua manipolazione, qui siamo giunti al grado zero del disfacimento: non c’è più corpo, ma pezzi di carne e di ossa che non appartengono più a nessuno, che si rendono indipendenti dall’individuo e si mescolano in un’orgia collettiva e spersonalizzata. La perdita del controllo e della ragione diventa la perdita totale dell’umano che, per Tsukamoto, parte dalla percezione del proprio corpo: quando si perde il rapporto con l’altro e la carne diventa solo carne e non più elemento costitutivo della persona, si dissolve lentamente l’essere umano, ridotto ormai ad un groviglio di nervi e istinto.
Questo è l’incubo raccontato da “Fires on the Plain”, la guerra come trionfo del gratuito e della mancanza di senso. Ed ecco perché questa carne e queste ossa sono continuamente messe in mostra e con tale artificiosità: la violenza di Tsukamoto non è realistica né impressionante ma volutamente eccessiva, posticcia e abbondante, come se il conflitto non fosse più tra uomini, ma tra corpi indistinti che si mangiano e si mescolano.
E’ interessante, allora, cosa questo spettacolo di efferatezze abbia per teatro: la natura, ripresa in un digitale che risalta colori e contrasti e che vediamo in rari lampi di bellezza. La natura ha, nel film, lo stesso procedere della memoria: incostante e fulminea, prima dà sollievo e poi viene cancellata, di nuovo, dall’incubo labirintico.
Come i fuochi della pianura: segnali di vita, che forse segnano il percorso verso la salvezza, e forse sono l’annuncio di un altro attacco.
Bellissimo.

La frase:
"Dov’è il fuoco? Ho bisogno del fuoco".

a cura di Stefano La Rosa

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