Django Unchained
I titoli di testa sono accompagnati dalla stessa "Django" che, scritta da Luis Bacalov e cantata da Rocky Roberts, aprì nel 1966 l’omonimo spaghetti western diretto da Sergio Corbucci.
Però, a differenza della pellicola interpretata da Franco Nero, che qui troviamo in una breve apparizione, il protagonista dell’ottavo lungometraggio di Quentin Tarantino, con il volto del premio Oscar Jamie Foxx, non è un reduce della Guerra Civile, bensì uno schiavo nero che, due anni prima del conflitto bellico, si mette alla ricerca della moglie Broomhilda alias Kerry Washington affiancato dal cacciatore di taglie di origini tedesche King Schultz – cui concede anima e corpo il Christoph Waltz aggiudicatosi l’ambita statuetta grazie a "Bastardi senza gloria", precedente fatica del regista.
Quindi, un’accoppiata bianco-nero che non può fare a meno di assumere immediatamente una allegorica valenza politica, mentre ci si avventura tra polverosi centri abitati, tributi da riscuotere ed inevitabili spargimenti di liquido rosso.
Perché, in fin dei conti, complici sia l’accentuato lato splatter che le maestose scenografie naturali, anziché dalle parti di un omaggio al western nostrano, costituito per lo più da campi stretti volti a camuffare i "paesaggi maccheronici", ci troviamo da quelle di un’operazione che strizza in maniera evidente l’occhio alle grandi storie di cowboy a stelle e strisce, con Sam Peckinpah in prima linea.
Infatti, è impossibile non ripensare a titoli del calibro di "Pat Garrett e Billy Kid" o "Il mucchio selvaggio" nel corso delle oltre due ore e quaranta di visione; man mano che fanno la loro entrata in scena anche Leonardo DiCaprio nei panni di Calvin Candie, proprietario di una famigerata piantagione chiamata "Candyland", e Samuel L. Jackson in quelli del suo anziano schiavo di fiducia Stephen.
Entrambi in grandissima forma quanto il resto del cast, che, comprendente immancabili nomi prevalentemente attivi nei b-movie (si spazia da James Remar a Don Johnson, passando per l’effettista-attore Tom Savini), appare come di consueto diretto a dovere dall’autore de "Le iene e Pulp fiction".
Con la risultante di un elaborato un po’ troppo lungo che, pur non deludendo i desiderosi di uno spettacolo tempestato di star hollywoodiane immerse in una trama di genere, lascia in maniera tranquilla intuire – come già avvenuto ai tempi della succitata vicenda hitleriana – che Quentin Tarantino non sia più l’enfant terrible dal gusto exploitation impegnato a scrivere le sceneggiature al bancone della videoteca, bensì un cineasta imborghesito propenso a ricorrere all’eccessiva violenza e al linguaggio sboccato soltanto per illudere spettatori e critica di avere ancora dietro la macchina da presa l’amante di quella produzione brutta, sporca e cattiva tanto bistrattata ai tempi che furono.
Una mancanza di coerenza che finisce per rappresentare più un difetto che un pregio.
La frase:
- "Che hanno da guardare?"
- "Non hanno mai visto un negro a cavallo".
a cura di Francesco Lomuscio
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