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La verità negata

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Alessio Altieri11 novembre 2016Voto: 7.0
 

  • Foto dal film La verità negata
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È plausibile che una stimata storica, professoressa universitaria, sia costretta a dimostrare in tribunale che le accuse mosse a un negazionista di aver distorto volutamente i fatti storici, non rappresentino diffamazione? È possibile che, per farlo, debba addirittura portare davanti a un giudice le prove che dimostrino l’effettiva esistenza dell’olocausto? In Inghilterra, dove non esiste la presunzione d’innocenza, sì.
È quello che è successo realmente a Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), professoressa di studi ebraici moderni e dell’Olocausto all’Emory University di Atlanta, quando il sedicente storico David Irving (Timothy Spall) l’ha citata in giudizio al tribunale di Londra, dando così vita a uno dei processi più paradossali e significativi degli ultimi decenni.

“Denial - La verità negata” è un film che aveva un potenziale enorme e un altrettanto grande trappola nella quale doveva stare attento a non scivolare: la possibilità (o il dovere) di prendere i fatti narrati come pretesto per un discorso più generale e attuale sulla libertà di parola, sulla verità e sull’esistenza (o meno) di più verità, e la trappola di un pedante sentimentalismo, sempre “invitante” quando la tematica di fondo è l’olocausto.
Il regista Mick Jackson, grazie soprattutto alla sceneggiatura di David Hare (“The Hours”, “The Reader”) è riuscito a sfruttare abbastanza bene la potenzialità e a non cadere praticamente mai nella trappola. Lo strumento grazie al quale è riuscito a farlo è il ritmo spedito, non ci si annoia mai, le cose da raccontare, da quando è stata intentata la causa nel 1996 fino a quando fu emesso il verdetto nel 2000, erano molte, e la scelta di quelle da mettere sul grande schermo è stata saggia e anche minuziosa. Diversi particolari che teoricamente non essenziali, si sono rivelati invece fondamentali nella costruzione dei personaggi, come la passione per il vino e il mancato sguardo all’avversario in aula dell’avvocato Richard Rampton (un come sempre grandissimo Tom Wilkinson) e il modo in cui David Irving si prende cura della figlia.

Quello che però maggiormente questo film lascia, è il messaggio che quando sembra che si sia detto o scritto tutto a proposito, una catastrofe umana come quella dell’Olocausto, ha ancora tanti insegnamenti da dare, sempre nuovi e così ampi, da penetrare in zone che sembrerebbero distanti. Il discorso sulla verità dell’Olocausto diventa un discorso sulla verità in assoluto, sul diritto di discuterla, in un momento storico, il nostro, dove pare sacrosanto poter dire le più disparate cose su un singolo avvenimento, dove il parlare a vanvera viene confuso per diritto di parola, dove il parlare molto viene confuso per sapere molto, “io non sono contro la libertà di parola” dice la protagonista alla fine “ma contro la libertà di dire bugie”.
In questo senso, il sottotitolo “a volte è necessario rimanere in silenzio per far sentire la propria voce” è un concetto che sembra meramente retorico, ma che nel film assume una sua rilevanza pratica, con gli avvocati della Lipstadt che la obbligano a non parlare per tutto il processo, così come non chiamano a testimoniare i sopravvissuti dei campi, convinti, a ragione, che le contraddizioni insite nelle bugie dell’avversario sarebbero necessariamente emerse, che la verità “vera”, spogliata da tutte le parole accessorie, si sarebbe presentata.

“La verità negata” senz’altro non è un capolavoro, ma è un film utile e necessario, di quelli “da far vedere nelle scuole”, che mostra quanto una verità, seppur assoluta, possa essere messa in discussione e quanto sia necessario prodigarsi per difenderla.


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