Carta bianca
Sebbene prenda ispirazione dalla triste morte di Sahid Belamel, giovane immigrato deceduto per ipotermia il 14 Febbraio del 2010 a Ferrara, sul ciglio della strada e nell’indifferenza generale, è nella metropoli di Roma che si svolge il secondo lungometraggio diretto dal colombiano classe 1972 Andrés Arce Maldonado, già autore di “Falene” (2009).
Una Roma che spazia dal quartiere San Lorenzo alla periferia di Corviale, passando per la zona di Villa Fiorelli e fungendo da scenario al cui interno tre personaggi si scontrano e si incontrano senza sapere che ognuno di loro stia per cambiare la vita dell’altro, nel corso delle circa venti ore che precedono l’alba del giorno di San Valentino: la bella badante moldava Vania alias Tania Angelosanto, gentile, religiosa e perseguitata dalle allucinazioni del suo mostruoso passato; il marocchino Kamal, ovvero il Mohamed Zouaoui de “I fiori di Kirkuk” (2010), che, amante dei libri e nemico di ogni fondamentalismo, spaccia droga nella biblioteca di quartiere mentre sogna di diventare italiano, europeo, occidentale; la grintosa Lucrezia, interpretata da Patrizia Berardini, imprenditrice dello stivale tricolore innamorata del suo cane e della propria azienda, ma ritrovatasi nelle grinfie di un usuraio.
Circa venti ore sintetizzate in novanta minuti di visione che, non privi di una spruzzata di indispensabile ironia, guardano in maniera evidente agli intrecci narrativi tipici dell’Alejando González Iñárritu cui dobbiamo “Babel” (2006) e “Biutiful” (2010), man mano che coinvolgono anche una brava Valentina Carnelutti nei panni della albanese Chanel.
E Maldonado, supportato sia dall’ottima fotografia di Maura Morales Bergmann che dalle efficaci musiche a cura di Max Trani, confeziona il tutto con notevole senso della tecnica (soprattutto se consideriamo che stiamo parlando di una produzione a bassissimo costo), regalando allo spettatore una Città Eterna immersa in immagini sporche capaci di catapultare il racconto in un’atmosfera da dramma a tinte noir.
Peccato soltanto che, al di là di una recitazione non sempre convincente (difetto tipico di questa tipologia di coraggiose operazioni), l’insieme finisca per essere penalizzato da eccessivamente lenti ritmi di narrazione che contribuiscono anche a rendere in parte confuso e non facilmente seguibile il susseguirsi degli eventi.
La frase:
"Senegal, tutto a posto?".
a cura di Francesco Lomuscio
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