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Bianco











Come il titolo stesso lascia intuire, il colore dominante è il bianco, in questo caso sia citazione riferita ad uno short brevissimo del regista Roberto Di Vito, qui al suo primo lungometraggio, sia metaforico riferimento ad una situazione di attesa irrisolta, a un "non luogo", un limbo dove si aspetta una soluzione che non si sa se arriverà.
Perché, in seguito ad una serie d’immagini commentate da una voce interiore narrante, bianco è anche il colore delle semplici e squallide mattonelle che vede il protagonista Igor Mattei, risvegliatosi bendato e legato, senza avere idea di dove e per quale motivo si trovi in quel misterioso posto.
Una storia di sequestro, fondamentalmente, volta a tirare in ballo due grotteschi rapitori "romanacci" man mano che, all’interno del casolare posto in una struggente campagna, affiorano incubi, sogni e rimpianti di momenti dell’insignificante esistenza dello sfortunato di turno.
Un pretesto che permette all’autore – il cui curriculum include collaborazioni sui set di nomi del calibro di Nanni Moretti e Michele Soavi – di costruire i circa 81 minuti di visione con dialoghi e personaggi ridotti all’osso (sia in interni che negli esterni), privilegiando l’aspetto visivo che, complice la buona fotografia di Marina Kissopoulos, finisce per enfatizzare in maniera efficace un’atmosfera generale continuamente sospesa tra la realtà e la dimensione onirica.
Atmosfera che, trapelante non poca ansia, rappresenta con ogni probabilità il punto forte dell’operazione, tecnicamente confezionata a dovere (e con un budget inesistente, bisogna precisarlo) e destinata a coinvolgere anche un’oscura figura nera.
Mentre, nel corso del lento incedere, la desolazione è tale che sembra quasi di rivedere un derivato del Vincent Price de "L’ultimo uomo della Terra" (1966), stavolta al servizio di un atipico elaborato di difficile comprensione e non adatto a tutti i palati, per meglio capire il quale è forse necessario ascoltare le parole di Di Vito: "Parte da un sequestro di persona (con spunto iniziale ‘stranamente’ simile a ‘Figli delle stelle’), per diventare un film esistenziale su un ragazzo ‘dimenticato’ da tutti e dalla società... un ‘nessuno’, un invisibile che mantiene una sua purezza di un’infanzia perduta che ricerca nell’acqua, nella serenità e nella corsa. Ma che alla fine si rifugia in immagini di paradisi irraggiungibili che si materializzano anche dentro le mattonelle dello squallido muro bianco della sua prigionia".

La frase:
"Non mi devi vedere in faccia, ti potresti spaventare".

a cura di Francesco Lomuscio

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