A tempo pieno

L'agenda bianca con i fogli privi di segnalazioni di appuntamenti o di riunioni di lavoro può essere un incubo per un manager affermato che ha fatto del proprio lavoro una delle principali ragioni di vita. Questo è il pensiero che ci è venuto all'inizio del film osservando Vincent (Aurelien Recoing) mentre sfoglia svogliato il suo note booking professionale.
Sullo sfondo di una fotografia plumbea Vincent girovaga con la sua auto simulando, al telefono con la moglie, incontri di lavoro ed impegni improrogabili. In una scena carica di drammaticità, dietro ad una carrellata lenta come una processione, Vincent, durante una festa della scuola dei suoi figli, dispensa a parenti ed amici sicurezza e felicità riguardo alla sua vita e alla sua occupazione. È un uomo disperato questo che regala falsi sorrisi, pensiamo, ha perso il suo lavoro, licenziato in tronco dalla sua ditta in nome di qualche disumano principio economico quale "produttività" e "scarsa redditività".
Ma da quei primi piani tagliati con la precisione di un orologiaio, da quelle solitarie fughe in macchina, da quei monologhi a due mascherati da dialoghi (un omaggio al buon vecchio Wenders?), ci rendiamo conto che Vincent non è un reietto ma è un uomo che fugge di sua volontà da una realtà nella quale per lui è diventato faticoso anche respirare.
In tale disagio, la famiglia, gli amici, gli ex colleghi diventano penosi macigni che è troppo doloroso affrontare. È meglio aggirarli, anzi, raggirarli con truffe e bugie. Il raggiro e l'inganno divengono per Vincent l'attività principale alla quale vi si dedica, anche con un iniziale discreto successo, con anima e corpo, "a tempo pieno" per l'appunto. Vincent nobilita l'arte dell'invenzione: si inventa un nuovo prestigioso lavoro, nuovi colleghi, nuovi paesaggi. Crea e si crea falsi tempi e falsi luoghi dove navigare fra le procelle delle menzogne. Anima tormentata vaga sulla sua auto tra un luogo e l'altro là dove si svolgono i suoi traffici ora di truffatore ora di contrabbandiere.
È solo in quei momenti, chiuso nel protettivo bozzolo della sua macchina, che Vincent riacquista una parvenza di calma interiore. "Adoro guidare" dice Vincent "mi accendo una sigaretta, ascolto la musica e non devo parlare con nessuno". E ancora, parlando del lavoro che ha lasciato: "A volte dopo aver fatto più di duecento chilometri per arrivare nel luogo in cui avevo un appuntamento, non volevo più scendere dalla macchina, mi diventava insopportabile l'idea di dover incontrare qualcuno".
Quando si combatte con un malessere di tale portanza, così avviluppante e globale, anche le persone che ti sono vicine, che ti amano, che soffrono per te, rischiano di divenire i tuoi primi carnefici ma anche le tue più ingiuste vittime. È il caso della moglie, Muriel (la brava Karin Viard, ha esordito nello spassosissimo "Zia Angelina") che in silenzio, ma quanto sonoro, segue i tortuosi percorsi intrapresi dal marito.

Il regista Laurent Cantet (già autore del superpremiato "Risorse umane" del 1998) con questo film - vincitore del Leone dell'Anno alla 58º Mostra di Venezia - ci propone una lucida riflessione riguardo al rapporto tra l'uomo e il lavoro. Il tema è ben approfondito ma l'angolazione nella quale si inquadra la storia è un tantino elitaria, certamente privilegiata. Intendiamo dire che la crisi del manager con una bella villa, un auto di alto livello, una famiglia alle spalle che lo sostiene, è indubbiamente degna di attenzione e compassione. Ma, francamente, ci sentiamo più solidali con i minatori di Loach ai quali nessuno ha concesso l'opzione se abbandonare o meno il luogo di lavoro (peraltro, una buia miniera e non un ufficio con scrivania in mogano), prendendosi una salutare pausa di riflessione. Ciò premesso, comprendiamo, tuttavia, come il disagio con la propria occupazione giornaliera (soprattutto quando indotto dall'azienda, vd. il fenomeno del mobbing) sia un tema sentito da molti e che di molto si avvicina alle problematiche che tutti noi viviamo quotidianamente.
"A tempo pieno" è comunque un ottimo film che descrive la storia tormentata di un personaggio, definito dal regista "il più sincero tra i bugiardi". A noi è sembrato il meno bugiardo tra i sinceri.

Das

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