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Alla deriva
Una coppia in vacanza che, per uno scherzo del destino, in seguito ad un'escursione subacquea, si ritrova abbandonata nelle acque infestate dagli squali.
Questa, ispirata ad un fatto realmente accaduto, era la trama che nel 2003 fu alla base di "Open water" (ma nei nostri cinema arrivò soltanto nell'agosto dell'anno successivo), ennesimo confronto su celluloide tra l'uomo e la natura, diretto con pochi mezzi ma lodevoli capacità tecniche dallo sconosciuto newyorkese Chris Kentis.
Ora, nuovamente tratto da una storia vera, ma passata la produzione in mano ai tedeschi, arriva nelle sale cinematografiche "Open water 2: Adrift" (da noi, appunto, "Alla deriva"), primo lungometraggio di Hans Horn, fino ad oggi attivo tra short e televisione, i cui protagonisti sono quattro amici che, per festeggiare un compleanno, si riuniscono sullo yacht di Dan (Eric Dane), ricco scapolo fidanzato con la bella Michelle (Cameron Richardson).
E, una volta concesso il giusto spazio alla presentazione dei personaggi, tra cui Amy (Susan May Pratt), sofferente di paura nei confronti dell'acqua da quando, da bambina, vide annegare suo padre, abbiamo i sei che, tuffatisi in alto mare per un bagno, si accorgono soltanto in seguito di aver dimenticato di posizionare la scaletta per poter risalire a bordo, dove giace, dormiente, la figlia neonata della donna.
Una situazione che, curiosamente, anziché riallacciarsi al capostipite di Kentis, ricorda fin troppo da vicino quella conclusiva di "Roma bene", diretto nel 1971 dal nostro Carlo Lizzani, in cui a farne le spese erano i benestanti della capitale tricolore.
Tanto più che, proprio come nella pellicola interpretata da Nino Manfredi, l'imbarcazione in questione, qui corredata perfino di bandiera a stelle e strisce, finisce per assumere le fattezze neanche troppo allegoriche di un capitalismo che arriva ad annientare chi lo ha nutrito per potersene nutrire, con Dan a farne da rappresentante vivente.
Tra pianti e disperazione, quindi, Horn fa a meno dei gettonatissimi squali e si limita a mettere in scena un'umanità nuda e cruda alle prese non solo con gli isterismi generati dal panico, ma anche con i dubbi relativi alla fede religiosa ed all'esistenza di Dio, richiamato addirittura nella scritta "Godspeed" riportata sullo yacht.
E, paradossalmente, l'immenso blu del mare aperto comunica nello spettatore la stessa claustrofobia che di solito viene generata ricorrendo a spazi chiusi, mentre i livelli di tensione ed angoscia, grazie alla curatissima regia, calano difficilmente; tanto che si sorvola su diversi momenti improbabili, i quali, in fin dei conti, appaiono funzionali all'enfatizzazione di un'estrema denuncia filtrata attraverso il genere, non distante, con i dovuti distinguo, dalla socio-politica horror di George A. Romero.
Con meno pessimismo... forse.
La frase: "Dio lascia che muoiano milioni di persone, anche bambini, perché dovrebbe salvare noi?"
Francesco Lomuscio
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