Un poliziotto da happy hour
Dieci anni fa, John Michael McDonagh scrisse e diresse il suo primo cortometraggio nel quale esordiva, in un ruolo minore, un poliziotto di nome Gerry: "ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con lui prima o poi", rivela il regista inglese. Pare che il momento di farne qualcosa sia arrivato, McDonagh scrive e gira "The Guard" (per noi "Un poliziotto da happy hour") con la voglia di sviluppare meglio questo personaggio, di dargli uno spessore. E Gerry Boyle uno spessore ce l’ha eccome.
Sergente di polizia in una piccola cittadina dell’Irlanda del nord, personalità aggressiva, una madre in punto di morte, il novizio agente McBride scomparso in circostanze misteriose e la compagnia di un collega dell’FBI per assolvere nella West Ireland l’incarico di arrestare tre narcotrafficanti pronti a smerciare mezzo miliardo di cocaina; queste le premesse per un film che si presenta come thriller comico ma che ben presto si muove verso situazioni più cupe e drammatiche. La traduzione italiana del titolo potrebbe portare fuori strada, poiché definire questa pellicola "semplicemente" comica è improprio; si tratta di un’opera che ha due facce ben definite. L’umorismo è presente fin dalle prime inquadrature in modo non volgare, servendosi a volte di argomenti come la politica e le differenze culturali tra le varie regioni del Regno Unito, altre volte di esilaranti giochi di parole; le varie gag e freddure sparse all’interno del film non sempre hanno come sfondo un contestocomico o disteso, bensì McDonagh inserisce l’ironia anche in situazioni di evidente tensione fra i personaggi. Un modo davvero intelligente di giocare la carta della comicità senza far cadere la sceneggiatura (e di conseguenza il risultato finale) nella trappola della risata facile. Le risate, invece, questo film le strappa forti e sentite. A volte leggere, a volte dure, le vicende di Gerry sono controllate da una validissima regia e da un montaggio insolito e ironico esso stesso; una pellicola dai colori accesi ma dai tratti cupi, come ci dimostra in primis la vicenda dell’agente McBride, la cui moglie si rivolge a Gerry Boyle preoccupata per la scomparsa del marito; per non parlare delle scene che l’agente protagonista condivide con sua madre, inquadrature dall’aria opprimente e negativa, rigorosamente senza commento musicale.
Per molti versi, una pellicola non convenzionale che si distacca dal classico thriller americano, sfoggiando un gusto squisitamente europeo. Meritevole di nota è l’amore per il cinema: ogni scusa è buona perché i personaggi traggano spunto dalla settima arte nelle loro conversazioni; allo stesso modo, è mostrato amore per la letteratura e la filosofia, viste le brevi battute scambiate tra Gerry e sua madre sulla letteratura russa contemporanea e le discussioni di carattere filosofico che i tre narcotrafficanti fanno in automobile. Un film in grado di uscire dai suoi confini geografici, culturali e semantici, un film che si proietta oltre il Regno Unito e oltre il cinema.
La frase:
"Non riesco a capire se lei è un farabutto o un paraculo".
a cura di Fabiola Fortuna
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