Di nuovo in gioco
Per il Clint Eastwood attore "Gran Torino" sarebbe stato un glorioso canto del cigno perché Walt Kowalski era il compendio artistico di un uomo che da più di mezzo secolo non smette mai di infiammarci. Dopo tutto, però, l’icona statunitense ha "solo" ottantadue anni e di sottrarsi dall’inquadratura della camera da presa non ne ha ancora voglia. Anzi, forse sta riflettendo sulla malinconica eventualità e lo fa direttamente all’interno della pellicola, che comincia soffermandosi sul suo protagonista: un anziano rugoso e rattrappito di nome Gus Lobel, talent scout di baseball con un’età scomoda per osservare i dettagli tecnici delle giovani promesse ed elaborarne a computer un profilo statistico.
La direzione degli Atlanta Braves vorrebbe pensionarlo dopo l’ultimo Draft MLB in North Carolina: l’unica persona che può aiutarlo è sua figlia Mickey (Amy Adams), brillante avvocatessa in carriera – cresciuta a pane e inning – con la quale Gus ha un rapporto tormentato. Da una parte un padre burbero e orgoglioso, dall’altra una figlia algida e infallibile; tra loro il baseball e un altro "scout" di nome Johnny Flanagan (Justin Timberlake).
Se non si capisce dove va a parare in queste poche righe, è garantito che un quarto d’ora di visione potrà fugare i possibili dubbi: "Di nuovo in gioco" ("Trouble with the Curve", il più efficace titolo originale) è prevedibile, ricco di cliché, didascalico nel suo svolgimento. Il pilastro emotivo, cioè la relazione padre-figlia che impone a entrambi di riconsiderare le proprie priorità, offre interessanti spunti di riflessione ma è troppo convenzionale perché garantisca un vero coinvolgimento. All’interno della narrazione si inseriscono, sulla stessa scia del déjà-vu, l’onnipresente metafora del sogno americano e una superflua storia sentimentale. Più intrigante ma rimasto in superficie, il fenomeno culturale dei giovani che "rottamano" i vecchi e della digitalizzazione delle professioni; Gus svolge il suo lavoro all’antica e respinge qualsivoglia aiuto tecnologico, su cui invece impostano l’attività le nuove generazioni costruendo un vantaggio competitivo difficilmente colmabile.
Nonostante tali premesse, al film diretto da Robert Lorenz (noto produttore, assistente alla regia ne "I ponti di Madison County") e sostenuto dal physique du rôle di Eastwood, non si può volere male. È un lavoro onesto, senza fronzoli, garbato nel raccontare una storia universale densa di calore; dove anche se sai cosa sta per succedere, lo aspetti con la curiosità di un bambino, riuscendo a tifare per il lieto fine perché è l’unica soluzione consentita.
Clint/Gus – il cui piglio ironico e scorza da vecchio guerriero trovano un punto di contatto con la vivacità del precedente Kowalski – è naturalmente la stella indiscussa: diverte, commuove, ringhia se serve. Quando ci sono in giro campioni puri come lui, anche se nell’autunno della vita, il freddo progresso può attendere: "no trouble", siamo ancora in buone mani.
La frase:
"Non ho bisogno del tuo aiuto".
a cura di Nicola Di Francesco
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