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La famiglia Savage
La famiglia Savage non è la tipica famiglia americana che si ritrova tutta insieme il giorno del ringraziamento per mangiare il tacchino, a cui ci ha abituato tanto cinema, anche indipendente, americano.
I Savage sono una famiglia disintegrata, dove ogni membro vive isolato dagli altri, lontano, chiuso nel suo bozzolo di sofferenza ed egoismo, quasi dimentichi l’uno dell’altro. Fino al giorno in cui Wendy e Jon si ritrovano a dover affrontare insieme la malattia del padre, colpito da demenza senile.
Un padre che non è mai stato amorevole con loro e che ha vissuto la propria vita disinteressandosi di quella dei due figli.
Inizia così un viaggio tra case di cura e reciproche ripicche, un viaggio nella propria sofferenza.
Tamara Jenkins affronta questo tema in modo adulto, crudo, realista con una buona dose di ironia e tantissima umanità. La sua scrittura è diretta, non ci porta in nessun mondo fantastico o enigmatico. I suoi personaggi sono persone reali, ricche, complesse, sfaccettate, piene di contraddizioni, incapaci di affrontare la vita. Wendy ha cercato di esorcizzare il proprio passato scrivendo commedie autobiografiche che però non trovano sovvenzioni e sopravvive tra lavori improvvisati e una relazione senza futuro e senza passione con un uomo sposato. Jon vive attraverso i suoi studi, terrorizzato all’idea di impegnarsi in prima persona.
Attraverso le sofferenze del padre, davanti alla difficile decisione di farlo internare in una casa di cura i due fratelli imparano ad uscire dal proprio isolamento e iniziano a pensare nuovamente le proprie vite.
Nel mettere in scena questa vicenda è bravissima la Jenkins a non lasciarsi mai prendere la mano da momenti di facile commozione, anzi cerca di mantenere sempre una certa distanza critica, proprio come Brecht, autore amato da Jon, in modo che lo spettatore possa riflettere su quello che vede in scena. Certo è impossibile non rimanere coinvolti emotivamente dalla vicenda dei tre personaggi, dalla loro fragilità e non immaginarsi un giorno a dover affrontare sia come figli, che un giorno come genitori bisognosi d’aiuto, una situazione simile.
Fortunatamente ci sono anche lampi di graffiante ironia all’interno del film, come la raffigurazione di Sun City, città per over ’60, dove tutto è pulito, asettico e inquietante, come in un film di Lynch, l’utilizzo delle canzoni in contrapposizione alla situazione narrata o durante la proiezione del film “Il cantante di jazz” davanti agli inservienti e agli infermieri di colore.
“La Famiglia Savage” certo non sarebbe stato così coinvolgente senza le magistrali interpretazioni di Laura Linney, Philip Seymour Hoffman e Philip Bosco nel difficile ruolo del padre.
La frase:
- "Finalmente, sei arrivato. Tu sei un dottore, vero?"
- "Sì, dottore in filosofia".
Elisa Giulidori
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