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The Rover











Se l’ambientazione richiama immediatamente alla memoria la saga “Mad Max”, lo dobbiamo senza alcun dubbio al fatto che, proprio come nelle avventure del futuristico Mel Gibson a tutta velocità, è l’Australia a fare da scenografia allo spettacolo in questione.
Una Australia desertica e polverosa, appartenente ad un mondo senza regole conseguito al collasso del sistema economico occidentale di dieci anni addietro e sulle cui strade – prive, però, dei possenti bolidi corazzati che hanno fatto la fortuna della citata serie diretta da George Miller – troviamo Eric, ovvero il Guy Pearce di “Memento” (2000), impegnato ad intraprendere un lungo viaggio all’inseguimento della banda criminale che gli ha sottratto l’automobile, l’unica cosa che ancora possedeva.
Un mondo in cui, esaurita qualsiasi risorsa naturale, la violenza non può fare a meno di imperare; man mano che il protagonista si trova costretto a condividere il proprio cammino con Rey, incarnato dal Robert Pattinson del franchise adolescenzial-vampiesco “Twilight”, un ragazzo problematico e ferito, abbandonato dalla gang in seguito all'ultima rapina.
Ed è proprio nel portare progressivamente allo scoperto le personalità dei due che il cineasta David Michôd – al suo secondo lungometraggio cinematografico dopo il dramma criminale “Animal kingdom” (2010), anch’esso interpretato da Pearce – costruisce fotogramma dopo fotogramma il rapporto destinato a legarli, partendo da una sceneggiatura scritta insieme all’attore Joel Edgerton (una carriera spaziante da “Star wars: episodio II-L’attacco dei cloni” a “Exodus-Dei e re”).
Sceneggiatura che, avvalendosi in particolar modo delle lodevoli performance della coppia di forzati compagni di sopravvivenza, intende in maniera evidente fornire un cupo western lontano dall’epoca dei cowboy e degli apache.
Un cupo western post-apocalittico, per la precisione, al cui interno non solo si lascia tranquillamente avvertire una certa rinuncia nei confronti della speranza, ma, come c’era da aspettarsi, non tardano a fare la loro entrata in scena cadaveri sparsi.
Un cupo western apocalittico caratterizzato da lenti ma coinvolgenti ritmi di narrazione e che individua uno dei suoi elementi più preziosi nella bella fotografia a cura di Natasha Braier (“Il canto di Paloma” di Claudia Llosa e “Rompicapo a New York” di Cédric Klapisch nel curriculum), punto di forza della avvolgente atmosfera di disperazione e desolazione enfatizzata.
Al servizio di un’operazione non particolarmente memorabile, ma in grado di apparire tutt’altro che banale... complice l’inaspettato epilogo.

La frase:
"Se non imparerai a combattere, morirai molto presto".

a cura di Francesco Lomuscio

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