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Tender Son - The Frankestein Project
Ungheria, ai giorni nostri. A Budapest in un palazzo disabitato e fatiscente, forse in via di ristrutturazione, preso in affitto per la bisogna, un regista è alle prese con il casting del suo prossimo film. Tra gli aspiranti vi è un giovane di cui non si sa nulla, Rudi, che subito colpisce il regista per stranezza mista a fragilità, poco propenso a parlare e dall’espressione monocorde. Il regista spinge il giovane al limite della sopportazione, ma a ogni cosa pare impermeabile. Durante una scena in cui dovrebbe avvenire un contatto fisico con la giovane protagonista, Rudi, lasciato solo, perde il controllo e, in preda al panico, la uccide. Si comprenderà poi che Rudi è il figlio del regista, abbandonato da quest’ultimo in un orfanotrofio e la resa dei conti avverrà sulle Alpi austriache, in mezzo alla neve. Non prima di aver lasciato dietro di sé altri due cadaveri.
L’ungherese Kornél Mundruczó si era fatto conoscere a Cannes vincendo con Delta nella Quinzaine des Réalisateurs: vicenda di un fratello, una sorella e un incesto. Ora riprende sempre le dinamiche familiari e i complessi edipici, scomodando la psicoanalisi e pure il capolavoro di Mary Shelley, Frankenstein. Se il punto di partenza è interessante, i mostri generati dalle colpe dei padri e, nello specifico, i mostri generati dall’opera di un regista, Mundruczó (che nel film recita simbolicamente proprio nel ruolo del padre/regista) dà ancora prova di essere un assemblatore di belle immagini, di conoscere tutti i trucchi di un "director" e di saperli maneggiare, ma l’estetica estremizzata del film nasconde un vuoto narrativo e un simbolismo studiato a tavolino. Il riferimento a Frankenstein è più un pretesto commerciale che un filo conduttore che possa dirsi tale, se non nella esacerbata sensibilità di Rudi, creatura lasciata a se stessa e alle proprie pulsioni, e la mancata voglia di comunicare qualcosa di intelligibile, le incomprensibili pause, i silenzi prolungati, le inquadrature insistite, sono uno sberleffo a qualsiasi spettatore di buon senso, di cui si abusa la pazienza e la voglia di capire. Non aiuta il protagonista Rudi, cui è richiesta la stessa non espressione per tutto il film e non fa che insospettire la ricorrente simbologia, a partire dallo stesso edificio in cui si svolge la vicenda, dedalo di corridoi bui, di stanze in rovina, in via di ristrutturazione, specchio dell’Ungheria contemporanea. Uno stile compiaciuto e pseudo intellettuale, che riesce a comunicare solo due cose: il gelo e la noia.
La frase: "Rudolf Nagy, così c’è scritto qui. Hai una madre? Un padre? Conosci il numero delle tue scarpe? La tua altezza? Il tuo peso? Niente età… né hobby, né casa...".
Donata Ferrario
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