Vero come la finzione
"Questa è la storia di Harold Crick e del suo orologio da polso. Harold Crick era un uomo di numeri, di calcoli infiniti e di pochissime parole. E il suo orologio ne diceva ancor meno". Trattandosi di una favola, soltanto attraverso la voce di un narratore poteva prendere l'avvio "Vero come la finzione", nuovo lungometraggio diretto da Marc Forster, un anno dopo "Stay-Nel labirinto della mente", che, sceneggiato dall'esordiente Zach Helm (alle spalle soltanto il tv-movie "Other people's business", del 2003), torna sul tema del rapporto tra l'artista e le sue creazioni letterarie, già affrontato dallo stesso regista, in un certo senso, all'interno di "Neverland-Un sogno per la vita" (2004), incentrato sulla vita dello scrittore e drammaturgo scozzese James M. Barrie.
Ma la novità qui risiede nel fatto che il narratore in questione, ovvero l'ormai dimenticata scrittrice Karen Eiffel, con le fattezze della sempre ottima Emma Thompson, finisce per fare conoscenza, inaspettatamente, proprio con il protagonista del nuovo libro che sta elaborando: il solitario agente del fisco Harold Crick, interpretato da un bravo Will Ferrell una volta tanto lontano da ruoli buffoneschi, il quale, dopo essersi reso conto del fatto che una voce femminile sta provvedendo a descrivere ogni sua singola azione, pensiero e sensazione con dovizia di particolari, si mette sulle sue tracce, allarmato, nel momento in cui capisce che la donna è alla ricerca del modo in cui far morire il personaggio.
E la vicenda prosegue, sostenuta da un cast in gran forma, con la progressiva entrata in scena di Queen Latifah, Dustin Hoffman e Maggie Gyllenhaal, rispettivamente nei panni di Penny Escher, assistente della scrittrice, l'esperto di letteratura Jules Hilbert e la pasticcera anticonformista Ana Pascal, la quale fa battere il cuore a Harold; mentre quest'ultimo, sempre più deciso a fermare chi sta decidendo il suo destino, preferisce ignorare totalmente la natura di ogni tragedia, fondata sull'uccisione di un eroe la cui storia, però, continua a vivere per sempre.
Perché è ormai chiaro che il cinema di Forster, nonostante l'invogliante confezione ed i nomi noti coinvolti, non tenda a puntare esclusivamente al classico grande pubblico, tanto più che, al di là dell'ironia presente, lascia tranquillamente intravedere un animo decisamente cupo e tutt'altro che rassicurante, all'interno di cui la morte - o meglio la preparazione al suo arrivo - risulta essere uno degli argomenti cardine.
Un soggetto incredibilmente originale ed affascinante come quello di "Stranger than fiction" (così s'intitola in patria il film), quindi, nelle sue mani si sarebbe potuto trasformare in un vero e proprio capolavoro di celluloide; il risultato, invece, penalizzato dall'eccessiva presenza di lenti ritmi di narrazione che non sempre riescono nell'impresa di coinvolgere lo spettatore, e, soprattutto, da un non necessario doppio finale che non fa altro che banalizzare quanto di coraggiosamente buono c'era fino a pochi minuti prima, rimane un agrodolce prodotto fantastico, senza infamia e senza lode, semplicemente volto a ribadire che ogni piccola ed apparentemente inutile sfumatura della nostra esistenza è in realtà quella che più ci arricchisce e rende preziosa la vita.
Un pò come il succitato "Stay-Nel labirinto della mente", del resto.

La frase: "No, non è schizofrenia, è solo una voce nella mia testa".

Francesco Lomuscio

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