Sound of Morocco
Classe 1953, qualcuno potrà ricordare la regista di origini pesaresi Giuliana Gamba per aver diretto i due drammi a sfondo erotico "Profumo" (1987) e "La cintura" (1989) o, addirittura, per aver firmato ancora prima – sotto pseudonimo, però – diverse pellicole hard.
Dopo essersi occupata per quasi dieci anni di lavori destinati al piccolo schermo, torna al documentario – genere già affrontato nel 2002 con il collettivo "Lettere dalla Palestina" – per mezzo di "Sound of Morocco" che, presentato nel 2009 presso il Festival Internazionale del Film di Roma, esplora le passioni, i paesaggi, i rimpianti e la memoria di un popolo da troppo tempo tenuto ai margini del mondo e che esprime la sua vera anima attraverso la musica, elemento di pace e tolleranza.
Sono, infatti, testi che parlano di un mondo ormai tempestato solo di bombe e guerre ovunque quelli cantati dagli artisti presenti nell’operazione, volta a condurre lo spettatore dalle scogliere di Tangeri in un viaggio di scoperta culturale e geografica all’interno del Marocco, alla volta di Essaouira, passando per Zri Zrat, Ouazzane, Meknes e Casablanca. Ma, soprattutto, un viaggio di scoperta del sound esclusivo, delle tradizioni musicali, dalla Jagiuka ai tipici canti spirituali, fino alla Gnawa degli schiavi.
E, con abbondanza di camera in movimento, è accompagnati dal musicista marocchino trapiantato in Italia Nour Eddine che veniamo invitati ad immergerci nel percorso riguardante le varie realtà musicali di un paese che, anche nelle sue sonorità, esprime la grande trasformazione che sta vivendo. Infatti, da un lato abbiamo il giovane neomelodico Abdellah Ed-Douch, poverissimo, berbero dalla bidonville in cui vive, impegnato a cantare il sentimento struggente che lo lega alla sua terra, dall’altro i rapper di Casablanca che, con il loro slang marocchino, sparano contro l’occidente che li aggredisce e li vuole fagocitare e globalizzare. Senza dimenticare Omar Sayed del gruppo rock Nass El Ghiwane, ovvero il primo che ha cantato l’orgoglio musulmano e l’unicità dell’anima e della cultura dell’Islam.
Tra danzatori e acrobati di strada, fino al Festival di Essaouira, luogo da cui partivano i carichi di schiavi che come unico patrimonio portavano nelle Americhe il ritmo della musica Gnawa.
Per un’operazione che, non priva di momenti di finzione e forte dell’efficace montaggio per mano di Raimondo Aiello e Joël Jacovella, ha preso forma in base agli incontri effettuati durante la realizzazione, senza una vera e propria sceneggiatura alla sua origine.

La frase: "Non sopporto di abbandonare le mie radici".

Francesco Lomuscio

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