Shutter Island
Per il loro quarto film insieme, dopo "Gangs of New York" (2002), "The aviator" (2004) e "The departed - Il bene e il male" (2006), Leonardo Di Caprio e Martin Scorsese hanno deciso di prendere le mosse da "Shutter island", best-seller di Dennis Lehane – autore di "Mystic river" – che fonde genere pulp, mistero gotico, teorie sui complotti e storie di fantasmi.
Infatti, affiancato dal mai disprezzabile Mark "Zodiac" Ruffalo, l’ex divo del "Titanic" (1997) veste i panni del poliziotto Teddy Daniels, il quale, nel 1954, all’apice della Guerra Fredda, viene convocato nell’isola del titolo per indagare sulla scomparsa di una pluriomicida fuggita da una cella blindata dell’impenetrabile ospedale di Ashecliffe.
Tra psichiatri inquisitori e pazienti psicopatici, è mentre emergono sordidi esperimenti medici, lavaggi del cervello e reparti segreti che torna immediatamente alla memoria "Il corridoio della paura" (1963) di Samuel Fuller, dalla trama analoga ma il cui protagonista era un giornalista infiltratosi in un manicomio.
Soltanto uno dei titoli che, insieme a "Vertigine" (1944) di Otto Preminger e "Il gabinetto del dottor Caligari" (1919) di Robert Wiene, Scorsese annovera tra quelli che hanno ispirato la lavorazione della pellicola, immersa in una grigia e claustrofobica atmosfera, enfatizzata dall’abbondantemente contrastata fotografia di Robert Richardson ("Bastardi senza gloria") e tormentata da una pioggia quasi incessante.
D’altra parte, con Ben Kingsley ("Gandhi") e Max von Sydow ("L’esorcista") a completare l’ottimo cast, le quasi due ore e venti di durata, attraversate da una riflessione relativa alla violenza presente in ogni comune mortale, spaziano in maniera efficace tra momenti da puro cinema della paura, in mezzo a cadaveri insanguinati e parlanti e una breve scena con branco di topi, e orrori decisamente più concreti e appartenenti alla vita reale, come i nazisti e le fucilazioni.
Per un insieme sicuramente coinvolgente e impeccabile dal punto di vista tecnico, ma il cui epilogo, seppur apprezzabile nella capacità di rimanere sul filo dell’ambiguità, non fatica a risultare già visto altrove e tutt’altro che in grado di permettergli di essere annoverato tra i migliori lavori dell’autore di "Taxi driver" (1976).

La frase: "Cos’è peggio, vivere da mostro o morire da uomo per bene".

Francesco Lomuscio

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