Non aprite quella porta: l'inizio
Motosega alla mano e grembiule da macellaio, la prima volta che abbiamo avuto il piacere di vedere sullo schermo la macabramente affascinante figura di Leatherface, destinato a trasformarsi, come i successivi Michael Myers, Jason Voorhees e Freddy Krueger, in una delle più influenti icone del cinema dell'orrore, fu nell'ormai lontano 1974, grazie a "The Texas chainsaw massacre", diretto dall'allora esordiente Tobe Hooper e distribuito nello stivale tricolore con un titolo che ha fatto storia: "Non aprite quella porta".
Da allora, nonostante tre sequel concepiti tra il 1986 ed il 1994 ed un ottimo remake firmato nel 2003 da Marcus Nispel, praticamente nulla è stato reso noto della genesi dell'imponente fagocita-uomini texano che porta il nome di Thomas Hewitt, al di là del fatto che, sebbene Hooper abbia smentito, la fonte d'ispirazione per la sua creazione fu Ed Gein, contadino necrofilo e cannibale realmente esistito - al quale si rifece perfino Alfred Hitchcock per delineare il Norman Bates di "Psycho" -, dedito alla realizzazione di maschere e soprammobili facendo uso dei resti delle proprie vittime.
La New Line Cinema, quindi, in associazione con Michael Bay, già produttore del film di Nispel, ha deciso di accontentare i fan della saga affidando lo script di un prequel a Sheldon Turner, alla sua seconda prova di scrittura dopo "L'altra sporca ultima meta" (2005), ed a quell'ancora non riconosciuto talento che si chiama David J. Schow, il cui curriculum di sceneggiatore include, tra gli altri, "Il corvo" (1994) e, non a caso, il sottovalutato "Leatherface: Non aprite quella porta 3" (1989), sicuramente la miglior continuazione della pellicola originale.
In "Non aprite quella porta: L'inizio", si comincia infatti proprio dal 1939, anno in cui il deforme protagonista, appena venuto al mondo ed abbandonato in un cassonetto della spazzatura dalla grassa mamma che lo ha partorito all'interno di un mattatoio, si ritrova recuperato ed adottato dalla folle famiglia che ormai conosciamo.
In seguito, l'ambientazione si sposta a trent'anni dopo, introducendo i due giovani fratelli Dean (Taylor Handley) e Eric Hill (Matt Bomer) che, in prossimità dell'arruolamento nell'infernale macchina militare per la guerra del Vietnam, decidono di concedersi un'ultima vacanza in Texas accompagnati dalle rispettive fidanzate Bailey (Diora Baird) e Chrissie (Jordana Brewster), senza immaginare che lo strano sceriffo Hoyt (R. Lee Ermey), incontrato sulla loro strada, altro non è che uno dei componenti della sadica combriccola di Leatherface (Andrew Bryniarski).
Perché, come il miglior cinema della paura a sfondo politico insegna, la critica sociale più o meno visibile all'interno dei precedenti capitoli della serie viene ora esplicitamente allo scoperto, mostrandoci le ragioni che hanno spinto un emarginato e per questo affamato nucleo familiare a divorare la società che non lo accetta.
E, nel porre in evidenza questo aspetto di vittime trasformate in carnefici, il regista Jonathan Liebesman, al suo secondo horror dopo "Al calare delle tenebre" (2003), non ricorre alla solita struttura narrativa costruita su una lenta attesa destinata ad esplodere progressivamente in violenza, ma, forte anche dei mai disprezzabili effetti speciali di trucco ad opera della più che collaudata K.N.B. EFX Group, privilegia gli omicidi già a partire dai primissimi minuti, con martelloni spacca-cranio, la vibrante lama della sega a motore sempre in movimento e notevoli spargimenti di liquido rosso (ovviamente, non manca neppure la raccapricciante fabbricazione di una maschera in pelle umana).
Il risultato finale, quindi, grazie soprattutto all'abbondanza di urla e di frenetiche inquadrature a mano ottimamente assemblate, presenta le fattezze di un cupo ed angosciante spettacolo che, non privo di disturbante sadismo spesso stemperato da un pizzico di grottesca ironia verbale, non concede un attimo di tregua ai nervi dello spettatore, avvolto nella consueta, inquietante atmosfera rurale illuminata dalla bella fotografia di Lukas Ettlin (già al servizio di Liebesman per il cortometraggio "Rings") ed impreziosita dalle sudice e fatiscenti scenografie dell'esordiente Marco Rubeo.
Tutti elementi che, grazie anche allo spiazzante ed inaspettato epilogo, non solo lo rendono uno dei tasselli più felici conseguiti al capolavoro di Hooper, ma rischiano di farlo trasformare in un vero e proprio cult-movie del genere, il quale, con gran sorpresa, testimonia una volta per tutte l'importanza che i trasgressivi connotati del cinema bis hanno assunto all'interno della solitamente edulcorata industria hollywoodiana.
E chi lo avrebbe mai detto che a regalarcelo sarebbe stato il responsabile del mediocre filmettino sulla fatina dei denti assassina?

La frase: "Per fortuna non sei andato in Vietnam, ti sarebbe potuta succedere una cosa come questa!"

Francesco Lomuscio

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