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Moebius











Dopo "Pietà", che l’anno scorso venne premiato con il Leone d’Oro, Kim Ki-Duk continua a mettere alla prova i suoi attori e le platee del festival con un film che racconta il lento disgregarsi di un nucleo familiare, attraverso un climax di violenza fatto di evirazioni, incesti e masochismo.
La sinossi è molto semplice: dopo un diverbio con il marito, durante una notte una donna si infila nel letto del figlio e con un coltello lo evira. Subito dopo fugge di casa, ripresentandosi soltanto nell’ultima parte del film. Questo episodio ha delle conseguenze immediate, fisiche ma soprattutto psicologiche, sul ragazzo, che subirà lo scherno dei coetanei e creerà in lui un sentimento di frustrazione. Il padre, allora, si getterà in una ricerca disperata di possibili soluzioni (dall’operazione chirurgica allo studio di modi alternativi per ottenere piacere), in un tunnel di ossessione e violenza che coinvolgerà più persone.
"Moebius" si presenta subito come la continuazione ideale di quel percorso, poetico ed estetico, intrapreso con "Pietà": a livello stilistico, Ki-Duk riprende in mano il digitale sporco ed economico del film precedente e tutto quello che fotografa sembra ricoperto da una patina di sudiciume. E, in questa direzione, anche la scelta dell’ambientazione non è casuale, ma anzi contribuisce a ricreare un ambiente spoglio, povero, privo di bellezza.
Tra i vicoli stretti della città, nel retrobottega di squallidi alimentari, il regista orchestra una vicenda fatta di soprusi e vendette private, dove l’apparente assenza di moralità nasconde invece un codice etico che sembra provenire dalle pagine di una tragedia greca.
In un mondo dove l’uomo fa del corpo femminile un mero strumento di piacere, una donna vuole punire il suo uomo e preservare il figlio da questo circolo di violenza e, con un’azione spaventosa, realizza il suo piano con consapevolezza.
E, sorprendentemente, il suo gesto ha degli effetti concreti anche sul padre, il quale, spinto da un amore limpido, darà tutto (e di più) per salvare il figlio e la sua sessualità perduta.
Nonostante il bagno di violenza che domina la scena, il film di Ki-Duk parla proprio di questo, dell’amore e dell’istinto alla sopravvivenza in un universo dominato dalla disillusione. Lo sguardo del regista coreano è cupo e pessimista e questo "Moebius" è costruito come una lotta all’ultima sangue: i guerrieri sono degli individui mossi dalla ricerca del piacere e da istinti animaleschi che nascondono emozioni e debolezze.
Ma il limite maggiore del film, purtroppo, è il ripetersi di certi meccanismi narrativi che, verso la fine, bloccano lo sviluppo della vicenda: nell’ultima parte il reiterarsi di violenze e attacchi reciproci allentano la tensione drammatica e diventano un gioco senza direzione, annacquando la storia. Sembra che Ki-Duk sia rimasto intrappolato nella trama da lui stesso intessuta, facendo passare in primo piano quello che doveva rimanere un veicolo comunicativo (l’uso che fa della violenza).
Rispetto alla sintesi e la forza straordinaria di "Pietà", quindi, questo "Moebius" è un passo indietro, un esperimento che porta all’esasperazione quel modo di narrare, sfiorando, più che raggiungendo, i suoi intenti.

a cura di Stefano La Rosa

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