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Mary Shelley - Un amore immortale

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Veronica Secci18 settembre 2018Voto: 5.5
 

  • Foto dal film Mary Shelley - Un amore immortale
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È una Elle Fanning deliziosa quella che, per la regia della saudita Haifaa Al-Mansour, interpreta sul grande schermo una smorta Mary Shelley, nata Mary Wollstonecraft Godwin. O meglio: una piccolissima parte di Mary, più precisamente quella cronologicamente compresa fra l’incontro con il poeta romantico Percy Bisshe Shelly (Douglas Booth) e la pubblicazione del Frankenstein o il moderno Prometeo, l’opera che consacrerà l’autrice britannica – allora appena 19enne – ad anticipatrice del filone fantascientifico.

Pochi anni della vita della scrittrice, ma estremamente densi di eventi: dalla fuga insieme a Shelley, fino alla nascita e alla morte della prima figlia, passando poi per il soggiorno nella lussuosa villa di Lord Byron e la pubblicazione, inizialmente anonima, del capolavoro. La storia è nota. Mary, figlia della fondatrice del femminismo liberale Mary Wollstonecraft e dello scrittore William Godwin (Stephen Dillane), ci viene presentata già sedicenne. Una giovane curiosa e affezionata alla sorellastra Claire (Bel Powley), che si divide fra l’adorato padre, la detestata matrigna, le storie di fantasmi lette di nascosto e i pensieri sparsi appuntati nei lunghi pomeriggi trascorsi ai piedi della lapide materna.
L’equilibrio viene scosso alla conoscenza dell’avvenente ed eccessivo Percy, giovane poeta perennemente in fuga dai debitori, che va costruendo la sua fama nei salotti letterari di questo primo Ottocento. Dopo la decisione di fuggire insieme, e la scelta di accogliere nella sgangherata compagnia anche la giovane Claire, per Mary si aprono le voragini degli eccessi romantici, fatte di alcol, poligamia e debiti economici. Eccessi e aperture di cui si era dichiarata ben consapevole, nell’atto di chiedere al padre una (mai ottenuta) benedizione, ma che – almeno nel film – paiono coglierla totalmente impreparata.

Una Fanning deliziosa, come anticipato, che regala però una Mary totalmente priva di carisma. Noiosa in una maniera inspiegabile, considerata anche la ricchezza e le potenzialità della sua storia. Un’ottima fotografia, musiche azzeccate, attenzione ai costumi e discrete interpretazioni (menzione per Tom Sturridge, che regala un gradevolmente eccentrico Lord Byron) devono infatti fare i conti con dialoghi banali e situazioni che riescono ad essere noiose per tutti e centoventi i minuti del film, nonostante si vadano raccontando le emozionanti (almeno in teoria) avventure dei principali esponenti della seconda generazione romantica.
Elementi non da poco, cui si aggiungono vuoti narrativi che rendono poco chiari alcuni passaggi e, soprattutto, una Mary inaccettabilmente ridotta a poco altro che i propri ormoni, costretta a subire un’ingiusta e intollerabile semplificazione del suo ruolo di scrittrice, in favore di un lungo, noioso ed evitabile dilungarsi di sguardi languidi e scambi di battute imbarazzanti. Ed è proprio l’adattamento della sua dimensione di autrice a risultare indigesto più di ogni altra cosa, soprattutto considerando che una gestazione complessa come quella del Frankenstein viene scandita in poche fasi goffamente allineate (e inframmezzate da inutili lirismi). L’interesse di Mary per la scienza e il tema della vita e della morte vengono invece raccontati in maniera a dir poco imbarazzante, con un apice raggiunto nel momento dell’esperimento home made realizzato da Shelley.

Un film che poteva essere tanto, e invece sarebbe forse stato meglio non fosse.


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