La vita oscena
La partecipazione di Renato De Maria al 71esimo Festival di Venezia portava con sé una serie di aspettative. La sua fama è legata soprattutto al fil “Paz!” del 2002, ormai piccolo cult del cinema indipendente italiano, in cui traeva ispirazione da diverse opere del fumettista Andrea Pazienza, rivisitate con un’ottima dose di freschezza e originalità. Oggi torna alla Mostra con “La vita oscena”, film che porta sullo schermo l’omonimo romanzo di Aldo Nove.
Andrea, figlio di una hippy e di conseguenza “nipote dei fiori”, vede la sua vita invasa dalla presenza della Morte, che gli sottrae prima il padre con un ictus e poco dopo la madre, stroncata da un cancro. Abbandonatosi a una quotidianità solitaria e ormai priva di qualsiasi punto di riferimento, tenta il suicidio fumando una sigaretta dopo aver provocato una fuga di gas, ma il suo corpo si rifiuta di morire e il ragazzo si ritrova catapultato a Milano grazie al suo talento di poeta. Non essendosi rassegnato all’idea della vita, riprova a raggiungere i genitori con un’overdose di cocaina, ma il suo cuore regge ancora, tanto da concedergli due giorni di vita da sprecare tra prostitute e masochismi.
L’idea da cui muove il film è senza dubbio ambiziosa e stimolante: adattare un romanzo di formazione rifiutando la forma di narrazione classica per procedere, invece, solo attraverso immagini, atmosfere, voci fuori campo. Purtroppo, tutto ciò che di interessante poteva essere insito in quest’idea è restato nella mente di chi l’ha partorita, mentre al povero spettatore viene restituita solo una versione estesa di quegli orrendi intermezzi che tristemente regnano nella maggior parte dei film dei giovani autori italiani, che alla ricerca di un linguaggio che possa essere definito “d’autore” rincorrono invano una poeticità che finisce per invadere momenti del film in cui è del tutto inadeguata. L’errore in cui incappano questi registi, di cui De Maria si è fatto rappresentante, è l’inseguire un’idea preconcetta, una forma già modellata senza in fondo sapere di cosa si tratta esattamente, anziché partorirla a partire da un contatto vero con la materia da trattare. In questo modo si finisce inevitabilmente per subordinare delle storie in potenza interessanti a scelte stilistiche che ormai sanno di standardizzato.
In “La vita oscena”, poi, tutto quanto è reso ancora più irritante dalla costante voce off del ragazzo che racconta la propria vicenda utilizzando un linguaggio con pretese di letterarietà che nascondono una pochezza di scrittura davvero sconfortante. Personaggi ridicoli, attori (volutamente, si spera) monoespressivi, situazioni imbarazzanti, presuntuosità incontenibile: tutto ciò che, evidentemente solo in teoria, non dovrebbe avere il primo film italiano presentato a Venezia.
Durante la proiezione in molti hanno lasciato la sala, soprattutto dopo la scena in cui il protagonista bacia una sconosciuta alla fermata dell’autobus dopo il suo “Si” alla domanda “Ti piace Umberto Saba?”, affiorata da chissà dove, ingiustificata e ingiustificabile. Tanti altri, invece, hanno resistito fino alla fine per esprimere il proprio dissenso con urla e fischi.
Isabella Ferrari, dopo la freddezza con cui il pubblico ha reagito, ha dichiarato che il film è troppo scomodo in Italia, e che per questo è stato accolto così negativamente. Pare che a lei, come d’altronde a Renato De Maria, vada ricordato che con un pizzico di umiltà e senso dell’umorismo si sarebbero potute fare cose molto più grandi.
La frase:
"Cerca di darti un contegno. Anche tu puoi essere normale: non c’è nulla di normale".
a cura di Luca Renucci
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