La terra dei santi
Vittoria (Valeria Solarino) è un magistrato giovane e idealista, di stanza nella Calabria più fortemente assoggettata alle crudeli leggi della 'ndrangheta.
La sua ferma volontà di cambiare le cose si scontra ogni giorno con l'omertà di chi ormai non crede più in alcuna giustizia e con le minacce, più o meno velate, di chi ha tutto l'interesse a bloccarne il giusto corso.
Come le sorelle Caterina (Lorenza Indovina) e Assunta (Daniela Marra), una la moglie di un temuto latitante e l'altra un a delle tante vedove dalle faide tra clan, da poco costretta a sposare suo cognato Nando.
Oppure i loro figli Pasquale e Giuseppe, adolescenti obbligati a crescere in fretta per dimostrare un valore che, in quel contesto, si misura soprattutto in morti ammazzati.
Assunta identifica nei legami familiari il tallone di Achille di un sistema criminale apparentemente impenetrabile e decide quindi di destituire le donne di 'ndrangheta della patria potestà sui loro figli.
Il calabrese Fernando Muraca, dopo una lunga gavetta spesa tra TV (è stato autore, tra le altre cose, di diverse puntate di “Don Matteo”) e cortometraggi, sceglie un tema importante e spinoso per il suo primo lungometraggio in cui prova a descrivere alcune delle dinamiche che muovono i fili di una tra le organizzazioni criminali più antiche e insidiose del Paese.
Ci prova, ma ci riesce maluccio.
Per quanto, infatti, l'intento sia nobile e l'approccio sincero, tali presupposti si scontrano purtroppo, nei fatti, con un risultato assolutamente non all'altezza delle aspettative.
Spiace dirlo trattandosi di un'opera prima, per di più a basso budget, ma ne “La terra dei santi” poco o nulla funziona, a partire da uno stile visivo che tradisce inesorabilmente i trascorsi televisivi di Muraca e che, in molti punti, rende il film più simile al pilot di una fiction Mediaset che non a un'opera destinata alle sale.
Colpa anche di un eccessivo manicheismo adottato nel rappresentare la lotta tra bene e male, che contrappone ai cattivi di turno un'eroina così dura e pura, priva del benché minimo dubbio e imperturbabile (anche di fronte a una testa di maiale lasciatale davanti alla porta di casa) come non si vedeva dai tempi del Commissario Cattani de “La Piovra”.
Di fronte a una caratterizzazione dei personaggi così grezza e unidimensionale, anche le interpretazioni di attori altrove notevoli (è il caso, ad esempio, di una Lorenza Indovina più che mai sprecata) o comunque volenterosi (il buon Ninni Bruschetta, in un afflato di pena verso un ragazzino traviato dalla 'ndrangheta, è costretto a mormorare pensoso un "che anima persa") vengono a risentirne appiattendosi su standard davvero bassi.
Non è affatto un caso che poc'anzi si citasse “La Piovra”, antesignano televisivo di tutte le possibili declinazioni di Squadre Antimafia e affini, perché il problema principale qui risiede proprio nel linguaggio utilizzato e, più in particolare, in uno script che risente pesantemente di una forma di già visto viziata da un ingiustificabile anacronismo. Quasi come se, nel frattempo, una serie TV come “Gomorra” non avesse ampiamente dimostrato che è possibile - anzi, è auspicabile - scrivere di mafie scardinando il principio che vuole per forza che ci sia un santino senza macchia da immolare sull'altare della Patria, con cui il pubblico sia quasi obbligato (e in questo caso non è neanche detto che ci riesca) a empatizzare.
E' ingiustificabile perché non può essere frutto di naiveté o di scarsa aderenza alla realtà, quanto invece della precisa scelta da parte del suo autore di non correre alcun rischio, né quello di una possibile accusa di mitizzazione del male (spauracchio a cui comunque ormai non crede più nessuno) né tanto meno di quello legato alle eventuali rappresentazioni della violenza.
Perché qui semplicemente di violenza non ce n'è e senza violenza, in un film del (e di) genere, i cattivi smettono immediatamente di essere cattivi e nello spettatore viene a mancare l'indignazione, vero e unico motore di tutto il cinema che una volta veniva chiamato "civile".
La verità è che, se si vuole parlare di argomenti scomodi, si dovrebbe anche essere disposti a sporcarsi le mani e non si può pretendere una vittoria ai punti con un compitino così pulito o, peggio, solo per il semplice fatto di trattare dell'organizzazione criminale storicamente meno coperta al cinema o di una terra poco battuta come la Calabria.
La frase:
"Dottoressa, voi volete fermare il mare con una mano. E non è possibile".
a cura di Fabio Giusti
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