L'amore è imperfetto
Elena è giovane e bella. Una carriera davanti, un passato d’angoscia alle spalle. Basta un incontro casuale e le regole del gioco si invertono, si ribaltano. Una ragazza cade dal motorino fermo, quello di Elena, parcheggiato proprio sotto una clinica privata di psicanalisi.
Lei è Adriana, quasi vent’anni, impulsiva e ribelle. Nello stesso momento un uomo le siede accanto: Ettore, cinquantenne affascinante, sguardo profondo, sigaro in bocca, accento straniero.
Questione di coincidenze, fatte di attimi paralleli che collimano. I due piombano nella vita di Elena come un turbine e ne stravolgono i contorni, conducendola nei meandri di una passione che chiede solo di essere vissuta. L’avventura aspetta Elena al varco, per liberarsi delle inibizioni, scendere a patti con sé stessa e riscoprirsi più vera. Intorno la realtà si sgretola per affondare dentro anime che cercano redenzione e la trovano solo accettando le proprie debolezze.
E i tre intraprendono un viaggio fatto di stazioni incerte, confuse, momenti di dolore, dove ognuno occupa un ruolo preciso, pedina imprescindibile di un gioco trasgressivo, a tratti perverso. Una sfida che bisogna avere il coraggio di cogliere. Per tutto il film è questo il filo conduttore. Il superamento di freni autoimposti e di convenzioni sociali, etichette e stereotipi con cui si viene classificati all’interno di un contesto. Questo è quello che vorrebbe emergere dal film di Francesca Muci, tratto dal testo omonimo, firmato dalla stessa autrice, L’amore imperfetto.
Invece, quello che risalta è la difficoltà di saper maneggiare una tematica complessa, declinandola in una pellicola che finisce per banalizzarsi, ripetitiva in quegli stessi cliché che ambisce a superare. La recitazione incontrollata e artefatta poggia su uno script debole e con diverse lacune, eccezione fatta per una discreta fotografia, nonostante imperi una resa televisiva omogeneizzante.
Il tutto si somma a stralci contenutistici che sventolano la pretesa di archetipi ma restano vaghe prospettive sottosviluppate, ridotte a macchie in una macrostoria che le ingloba senza assorbirle. Forgiata dal documentario, la regista barese si addentra in un territorio che sembra sfuggirle di mano per caricarsi di un’attenzione eccessiva alla forma, senza preoccuparsi di un contenuto che fatica a prendere corpo, fermo a superficie. Passato e presente si mescolano artificiosamente, mancando nell’aggiungere dettagli particolarmente interessanti, col solo risultato di sottolineare quanto già ampiamente tratteggiato. L’amore imperfetto è un prodotto che non solo vuole parlare di imperfezione, ma la corteggia fino a farne un totem cui immolarsi, arrivando a sfiorare la caricatura. Le linee temporali raccontano di un dramma non superato, ma fin dalle prime inquadrature è intuibile il desiderio che spinge Elena lungo strade spesso vuote, silenziose, lunghissime. Nello stesso tempo rivelano anche il rancore ancestrale che l’avvolge, esplicitando senza troppe remore quello che poi finge di giungere inatteso, pretendendo di sorprendere lo spettatore, corteggiato senza cura con indizi didascalici e superflui, come a volerlo condurre per mano in una caverna atavica che può sconvolgere, un luogo recondito custode di un vaso di Pandora pericoloso. Si può parlare di eros senza cadere nel volgare, rifuggendo quegli stessi stilemi che già gravano sul tessuto sociale e lo si può fare con grazia o con trasgressione a seconda del messaggio da divulgare, diretto ad una presa di coscienza molte volte ancora tardiva.
Un film riuscito garantirebbe quel nodo alla gola che smuove l’anima perché parla di attualità, parla di esistenza e umanità. Sicuramente, non è il caso del film in questione, tentativo fallito di inserirsi in una cornice di anticonformismo. Soprattutto se si pensa al desiderio che la pellicola stessa avanza di assurgere a manifesto universale.
La frase:
- "Ti accompagno?"
- "No. Lo devo fare da sola".
a cura di Marta Gasparroni
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