Imago Mortis
Il periodo storico non è precisato, a giudicare dall’abbigliamento siamo sicuramente nella seconda metà del XX secolo, ma risultano assenti computer, telefoni cellulari e qualsiasi altro strumento possa ricondurre alla tecnologia moderna.
In questo contesto decisamente fuori dalla realtà l’Alberto Amarilla di "Mare dentro" (2004) veste i panni dell’orfano Bruno, studente spagnolo di regia presso la scuola internazionale di cinema "F.W. Murnau" che, supportato dalla coetanea Arianna, interpretata dalla figlia e nipote d’arte Oona Chaplin, cerca di far luce su strani e sanguinosi eventi probabilmente legati alla thanatografia, secondo cui rimuovendo i bulbi oculari di una persona appena uccisa è possibile riprodurre su supporto sensibile l’ultima immagine fissata sulla retina.
Senza dubbio un’idea di partenza che non può fare a meno di ricordare quella alla base di "Quattro mosche di velluto grigio" (1971) di Dario Argento, maestro dell’horror-thriller tricolore richiamato anche dalla presenza di un personaggio femminile il cui cognome è Nicolodi, come la Daria protagonista dei suoi film, ma che rappresenta soltanto il primo di una serie di nomi noti volutamente citati dal regista Stefano Bessoni, qui alla sua opera seconda dopo "Frammenti di scienze inesatte" (2005).
A partire da un professore soprannominato Caligari e dall’istituto intitolato all’autore di "Nosferatu il vampiro" (1922), infatti, sono chiari gli omaggi all’Espressionismo tedesco, dal quale "Imago mortis", nel lodevole tentativo di riportare il gotico all’interno dei sottogeneri della cinematografia nostrana, sembra ricalcare anche la contrastata fotografia ricca di ombre sui volti.
Del resto, ancor prima che sullo splatter, presente in minima parte, Bessoni punta su cupe atmosfere polanskiane infarcite di pioggia scrosciante, quando non disturbate da spettrali apparizioni prese in prestito dalle ghost-story iberiche d’inizio terzo millennio.
Peccato che, al di là di efficaci momenti (si pensi alla sequenza dell’agnello squartato), una coraggiosa operazione del genere finisca per essere penalizzata da difetti che non tardano a farsi sentire, dalla discutibile prova da parte di diversi elementi del cast – al cui interno troviamo anche Geraldine Chaplin e Francesco Carnelutti – al confusionario script frutto forse di troppi rimaneggiamenti, i quali hanno visto coinvolti anche Luis Berdejo, sceneggiatore di "[Rec]" (2007), e Richard Stanley, regista di "Hardware" (1990) e "Demoniaca" (1992).
Difetti che finiscono per attribuire al prodotto soltanto il look di un saggio scolastico citazionista e tecnicamente non disprezzabile che, se da un lato risulta sufficiente per ottenere la promozione al livello successivo, dall’altro, con ogni probabilità, non appare in grado di convincere in pieno il pubblico, che rappresenta purtroppo quello conclusivo.

La frase: "Ho cercato di rappresentare la paura usando gli elementi che avevo a mia disposizione".

Francesco Lomuscio

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