Fuga dal Call Center
Un impiego nocivo per l’umanità del dipendente, poco retribuito, privo di garanzie sul futuro. Il rischio disoccupazione lo rende però molto diffuso e simbolo delle nuove forme occupazionali. Sa di cosa parla il regista Federino Rizzo (autore di molti corti e 6 lungometraggi del progetto "Decalogo delle giovani vittime") che, oltre ad averci lavorato anche lui qualche anno, ha unito alla parte di finzione di "Fuga dal call center" una sintesi del migliaio di interviste da lui fatte a suoi ex-colleghi in città, da Nord a Sud, di tutta Italia. Sulla scorta del proprio vissuto e del materiale raccolto, ha voluto realizzare un’opera proprio per imporsi di non tornare in quel calvario: delle cuffie con microfono simili a una corona di spine cristiana sono infatti il semplice logo di un film che ha sviluppato una rete di professionalità (con alcuni attori incontrati - per l’appunto - sul "luogo del delitto"), un gruppo di produttori riunitisi anche per la distribuzione, il coinvolgimento istituzioni, sindacati, associazioni.

Macchina da presa a mano, inserti di fantasie "musical" e allucinazioni da stress, il cineasta ricorre alla commedia anche per gli aspetti più duri. Relativi sia al luogo di lavoro (il contratto-capestro, il "briefing" della settimana, la pausa caffè contingentata, i licenziamenti per SMS) che alle rigorose pianificazioni del quotidiano (spesa al discount, nessun divertimento o cene fuori, doppio lavoro, l’impossibilità di ottenere prestiti finanziari). Data quindi l’assurdità del reale, felicemente il tono sconfina di continuo nel grottesco (l’applauso al nuovo arrivato, sulle postazioni i cartellini sarcastici a specificare la laurea, la videocamera interna collegata ad una sala scommesse) e tocca vette spassose con alcuni personaggi, come il cinico selezionatore, lo psicologo (il critico Tatti Sanguineti) o il vigilante del supermarket, che poi è il musicista Peppe Voltarelli, presente pure in una colonna sonora a tema (bella la presenza del brano "Eroe" di Caparezza). Giustamente, in fondo resta l’amaro di una precarietà largamente condivisa.

La frase: "Persone deboli sono costrette a ingannare persone ancora più deboli. E’ una guerra tra poveri, in cui guadagna solo chi gestisce questo lavoro".

Federico Raponi

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