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DumboLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio25 marzo 2019Voto: 5.5
Sarà vero che nel mondo dello spettacolo il segreto è avere un coniglio nel cilindro o una scimmia nella scrivania?
Ripartiamo dal 1941, anno in cui, al fine di recuperare le perdite finanziarie portate dall’elaboratissimo “Fantasia”, la Disney decise di optare per uno stile semplice ed economico mettendo in piedi “Dumbo”, che, al di là del non accreditato John Elliotte, vantò la firma di sei registi: Samuel Armstrong, Norman Ferguson, Wilfred Jackson, Jack Kinney, Bill Roberts e Ben Sharpsteen. Un lungometraggio d’animazione che, della durata di poco più di un’ora e derivato da una storia scritta per un Roll-A-Book – scatola dotata di piccole manopole che i lettori avrebbero dovuto girare per leggerla attraverso una finestra – probabilmente mai concepito, settantotto anni più tardi viene esteso a oltre centodieci minuti nella rilettura live action a firma del visionario Tim Burton, ovvero colui che rinnovò nel 1989 il mito di Batman sul grande schermo e che in casa di Zio Walt mosse i suoi primi passi figurando tra gli artisti che collaborarono, tra l’altro, a “Red e Toby nemiciamici” e “Taron e la pentola magica”. Infatti, escludendo pochissimi momenti come quello delle bolle di sapone, nell’evidente fine di dilatare la storia ci si distacca molto dal cartoon di partenza e, anziché privilegiare come in quel caso il punto di vista dell’elefantino del titolo, capace di volare grazie alle sue orecchie di grosse dimensioni, ci si basa sulla prospettiva umana, introducendo il personaggio di una ex star circense dalle fattezze di Colin Farrell che, insieme ai figli Nico Parker e Finley Hobbins, viene ingaggiato da Danny DeVito, proprietario di un circo. E sono proprio loro tre a doversi prendere cura del piccolo pachiderma, divenuto lo zimbello dell’attività; man mano che fa la sua entrata in scena una affascinante trapezista incarnata da Eva Green e affiancata da un persuasivo e molto poco pulito imprenditore dal volto di Michael Keaton (non a caso, colui che indossò per due volte il costume del citato Uomo pipistrello), interessato a reclutare l’animale per il suo nuovo scintillante spettacolo. Perché, tempestato di immancabile ed eccellente effettistica digitale e non privo di più o meno esilaranti frecciatine verbali rivolte alla Francia e ai newyorkesi, questo “Dumbo” 2019 dispensa chiaramente dietro al look di film per giovanissimi spettatori e loro famiglie un discorso critico riguardante le più o meno oscure dinamiche dello show business, prima di approdare alla spettacolare fase conclusiva immersa in fuoco e fiamme. Ma, se da un lato la sceneggiatura del produttore Ehren Kruger – autore degli script di “Scream 3” e di “The ring” – sembra costruirsi su pochissime idee, conferendo l’impressione che la visione proceda quasi per inerzia, dall’altro Burton appare sempre più lontano dagli stilemi personali che lo resero genio innovatore della Settima arte negli anni Novanta, tra un “Edward mani di forbice” e un “Il mistero di Sleepy Hollow”. L’”Edward mani di forbice” di cui, oltretutto, vengono qui riecheggiate le musiche a firma dello stesso Danny Elfman, tanto che è la colonna sonora a rientrare tra i pochissimi elementi che consentono di riconoscere ancora l’impronta minima di un cineasta ormai fagocitato dalle regole disneyane e della sempre più fredda e meno esaltante Hollywood del terzo millennio. La frase dal film:
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