Cub - Piccole Prede
A cominciare dal prologo, nel quale vediamo una ragazza disperatamente in fuga da un mostruoso individuo, appare evidente che il modello di riferimento siano gli horror boschivi a stelle e strisce alla “Wrong turn” (2003) di Rob Schmidt.
Ma è dal Belgio che proviene “Welp” (come s’intitola in patria il film), primo lungometraggio diretto da Jonas Govaerts, che da quella tipologia di pellicole riprende un po’ tutti gli ingredienti classici, dalla foresta in cui accamparsi al fagocita-vittime di turno che vi si aggira, tranne i protagonisti: un gruppo di giovanissimi boy scout.
Gruppo alla cui guida troviamo, oltre a Titus De Voogt e Stef Aerts, la Evelien Bosmans vista nel biopic “Marina” (2013); man mano che si viene a scoprire che nei pressi del posto scelto per piantare le tende non solo si aggira un ragazzino di nome Kai, a quanto pare pericoloso licantropo, ma esisteva tempo addietro una fabbrica di autobus ormai abbandonata e che, in seguito alla chiusura, vide suicidarsi diversi operai che vi lavoravano.
Aspetto, quest’ultimo, che conferisce (quasi) un certo retrogusto di metafora sociale al sapor di spettro della crisi alla oltre ora e venti di visione, il cui personaggio cardine finisce per essere Sam, ovvero l’esordiente Maurice Luijten, solitario e taciturno orfanello della combriccola di lupetti che, oltre ad essere spesso sbeffeggiato ed emarginato dagli altri, non viene neppure creduto quando dice di aver visto il piccolo semina-terrore.
E, mentre la prima parte dell’insieme viene messa in piedi generando a dovere il giusto clima di mistero e tensione destinati a salire con estrema lentezza, come in ogni operazione del genere che si rispetti non sono assenti neanche gli inutili consigli-avvertimenti da parte di un poliziotto locale.
Anticipando il notevolmente cruento massacro a base di occhi trafitti e corpi infilzati e schiacciati che, coinvolgendo trappole mortali e coltelli, conduce verso un tutt’altro che prevedibile epilogo.
Anche se dobbiamo parlare, purtroppo, di una prova non del tutto riuscita, in quanto, sebbene risulti impossibile non notare una lodevole padronanza del mezzo di ripresa e la capacità di riuscire ad evitare la sensazione del già visto nonostante la tipologia di storia raccontata (tra l’altro, gli elementi sfruttati richiamano alla memoria “Il signore delle mosche”), la sceneggiatura – a firma dello stesso regista al fianco di Roel Mondelaers – non manca di lasciare più confuso che spiazzato lo spettatore, in parte a causa della sua decisione di lasciare inspiegati (o mal spiegati?) alcuni aspetti.
La frase:
"Kai è solo una storia per rendere il campo più emozionante".
a cura di Francesco Lomuscio
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