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ACAB - All Cops Are Bastards











Dalle vicende riguardanti la banda criminale più nota del panorama romano al racconto del controverso "reparto mobile", spesso guardato con distacco da tutto il resto della Polizia e con sospetto e diffidenza dai cittadini.
Prendendo il via dalle pagine dell’omonimo testo scritto da Carlo Bonini, il cui titolo altro non è che il motto partito dal movimento skinhead inglese degli anni Settanta per poi trasformarsi nel richiamo universale alla guerriglia nelle città, nelle strade e negli stadi, possiamo sintetizzare così il passaggio effettuato da Stefano Sollima dal piccolo schermo, per il quale ha curato la straordinaria serie televisiva “Romanzo criminale”, al grande.
Con incluso nel cast l’Andrea Sartoretti che concedeva anima e corpo a Bufalo proprio nella citata serie, il figlio del Sergio Sollima autore di "Città violenta" (1970) e "Revolver" (1973) provvede a fornire tramite uno sguardo dall’interno il ritratto di tre "celerini bastardi", più che di tre poliziotti; i quali, interpretati da Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro e Marco Giallini, hanno imparato a essere bersaglio perché vivono immersi in una violenza che diventa lo specchio deformante di una società esasperata, di un mondo che, governato dall’odio, ha perso le regole e che loro intendono far rispettare anche ricorrendo all’uso spregiudicato della forza.
Tre protagonisti in stato di grazia che, tra culto della destra fascista e scontri di massa, trovano al loro fianco una giovane recluta con le fattezze di un ottimo Domenico Diele; immerso come loro in una Roma veltroniana che, mentre si parla di quanto accaduto a Genova al G8 del 2001 e dell’uccisione dell’ispettore capo Filippo Raciti durante il derby Catania-Palermo del 2007, vive il tragico stupro con omicidio di Giovanna Reggiani e l’accidentale morte del tifoso laziale Gabriele Sandri.
Una Roma invasa da rumeni e altri cittadini non italiani che Sollima racconta guardando più al cinema di genere che ai tipici esempi di denuncia sociale su celluloide, tirando in ballo anche politici che promettono ma non mantengono ed evitando di esprimere un giudizio preciso, ma lasciando esclusivamente allo spettatore il compito di giudicare chi siano i buoni e chi i cattivi.
E lo fa sfoggiando una splendida regia di taglio decisamente internazionale che, tra momenti da antologia (citiamo soltanto il dialogo via citofono tra Favino e un extracomunitario) e nutrita colonna sonora usata in maniera eccellente ("Seven nation army" dei White stripes e "Police on my back" dei Clash nel mucchio), ci permettono di poter tranquillamente affermare di trovarci dinanzi al lodevole esordio di uno dei pochi figli d’arte capaci di dimostrarsi più portati per l’essere artisti che per il facile sfruttamento della propria "posizione privilegiata".

La frase:
"I fratelli non s’abbandonano, mai".

a cura di Francesco Lomuscio

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