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C'era una volta...a HollywoodLa recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com di Francesco Lomuscio03 agosto 2019Voto: 6.5
Il titolo richiama immediatamente alla memoria quello del documentario “C’era una volta Hollywood” di Jack Haley Jr., ma, considerando che dietro la macchina da presa si trovi il Quentin Tarantino che non ha mai nascosto il proprio amore nei confronti della Settima arte tricolore, è lecito pensare che il rimando sia rivolto a Sergio Leone, che si tratti di “C’era una volta il West” o di “C’era una volta in America”.
Del resto, con un inizio in bianco e nero destinato a precedere titoli di testa dopo cui ci si sposta a Sabato 8 Febbraio 1969, da un lato le oltre due ore e quaranta di visione provvedono a rievocare in maniera non poco nostalgica la variopinta atmosfera della magica mecca del cinema di fine anni Sessanta, dall’altro concedono grande importanza all’allora gettonatissimo filone in fotogrammi a base di cowboy e cavalli, dal quale proviene il protagonista attore sul viale del tramonto incarnato da Leonardo DiCaprio. Un Leonardo DiCaprio che se ne va in giro insieme alla propria controfigura incarnata da un Brad Pitt che, qui in una delle migliori performance della sua carriera, non manca neppure di cimentarsi in un esilarante scontro con un Bruce Lee dalle fattezze di Mike Moh. Soltanto alcuni dei nomi atti a costituire un ricco e valido cast che, al di là di Kurt Russell, Zoë Bell, Al Pacino e il compianto Luke Perry del telefilm “Beverly Hills 90210” coinvolti in brevi apparizioni, include il Timothy Olyphant di “Hitman – L’assassino” nel ruolo di James Stacy e, soprattutto, Margot Robbie ed Emile Hirsch rispettivamente in quello dell’attrice Sharon Tate e del parrucchiere Jay Sebring, suo ex fidanzato. Perché, man mano che viene osservato come molte persone perdano la vita in Vietnam mentre gli attori sono falsi e uccidono per finta, è proprio nel periodo in cui si consumò il massacro attuato dalla setta capitanata dal folle Charles Manson ai danni della allora compagna di Roman Polanski e di alcuni suoi amici che si colloca la nona fatica registica dell’autore di “Bastardi senza gloria” e “Django unchained”, lavori che insieme a questo film costituiscono una ideale trilogia costruita sulla fantasiosa rivisitazione di reali avvenimenti storici. Infatti, con un’overdose di violenza finale tirata in ballo, quella che viene proposta – in maniera curiosamente simile a quanto visto nel contemporaneo “Sharon Tate – Tra incubo e realtà” di Daniel Farrands – è tutt’altro che la fedele ricostruzione dell’accaduto, posta quasi a contrastare il fascino trasudante da tutto il resto, in mezzo a splendide automobili e sfarzose scenografie. Una ricostruzione che, complice una onnipresente radio di sottofondo che sembra direttamente derivata da quella dell’esordio tarantiniano “Le iene”, viene accompagnata da una nutrita colonna sonora di evergreen spaziante da “Mrs Robinson” di Samuel & Garfunkel a “Out of time” dei Rolling stones, passando per “Hush” dei Deep purple e per una rilettura di “California dreamin’” a cura di José Feliciano. E non mancano neppure un omaggio a “La grande fuga” di John Sturges, i nostri cineasti Sergio Corbucci, Giorgio Ferroni e Antonio Margheriti citati verbalmente e fake poster di pellicole italiane mai esistite; a divertente corredo di quello che, senza dimenticare neppure Damian Lewis impegnato a rendere fugacemente la figura del mitico Steve McQueen, appare sì in qualità di monumentale ed esteticamente lodevolissimo atto d’amore da parte di un cinefilo con la “c” maiuscola (altrimenti non potrebbe essere definito colui che ci ha regalato “Pulp fiction” e il dittico “Kill Bill”), ma capace di conquistare soltanto prendendone separatamente le diverse accattivanti situazioni, in quanto penalizzato da un evidente eccesso di carne al fuoco e, soprattutto, dall’errore di concedere un po’ troppo spazio alla fiacca fase centrale ambientata sul set western. La frase dal film:
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