Unknown - Senza identità
I coniugi Harris, Martin e Liz, stanno raggiungendo in taxi il loro hotel a Berlino, dopo un volo intercontinentale. Lui, biogenetico americano, deve partecipare a un importante congresso di biotecnologia: solo che, una volta arrivato alla reception, si accorge di aver lasciato in aeroporto la sua ventiquattrore e, preoccupato, torna indietro per tentare di recuperarla. Per Martin è l’inizio di un incubo. Il taxi su cui si trova ha un incidente e precipita nella gelida Sprea: senza conoscenza e ferito gravemente, viene salvato dalla conducente, Gina, che, clandestina in Germania, fugge.
Martin si risveglia in ospedale in stato confusionale, senza documenti: un paziente "senza identità". Il peggio però deve ancora arrivare: nonostante il parere contrario del medico, Martin si fa dimettere e raggiunge l’hotel e la moglie, che non lo riconosce. Non solo: accanto a lei c’è un altro uomo che dichiara di essere Martin Harris. Cosa sta succedendo?
Un thriller con i fiocchi che non scontenterà nessuno. Dopo le polemiche per Orphan, il regista Jaume Collet Serra offre al pubblico una storia avvincente, tratta dal romanzo di Didier van Cauwelaert, rieditato da Dalai. Partendo dall’assunto che, in un giallo, niente è mai come sembra, Collet Serra ordisce una ragnatela di trame e sottotrame in cui tutto funziona alla perfezione e in cui alcune note stonate dell’inizio trovano la propria spiegazione nello scoppiettante finale. Non si può non percepire in Unknown l’influenza di Hitchcock, Polanski, di Doug Liman prima e di Paul Greengrass poi della serie Bourne, a volte esplicitamente richiamati con rimandi visivi, così come, nel protagonista, Liam Neeson, non si può non ricordare l’ambiguità di Cary Grant de Il sospetto, Caccia al ladro, Intrigo internazionale e l’amnesia di Matt Damon/Jason Bourne ma anche di Guy Pearce in Memento. Il tema della perdita della propria identità poi - convalidata da che cosa? Documenti, passaporti, fotografie, ricordi condivisi - è uno dei più affascinanti e complessi.
Collet Serra però vuole solo intrattenere e lo fa bene, senza troppo indugiare in riflessioni esistenziali: quindi grande ritmo, assenza di pause, inseguimenti mozzafiato, corse contro il tempo, perfino un ex agente Stasi (interpretato dal grande Bruno Ganz). Neeson si destreggia alla perfezione, mantenendo quell’espressione smarrita e incredula di chi non riconosce più il mondo che gli sta intorno e, peggio ancora, non riconosce più se stesso. Accanto a lui, Diane Kruger, solare ed empatica, l’algida January Jones di Mad Men e l’inquietante Frank Langella. Soprattutto, vera co-protagonista del film, è un’affascinante Berlino raggelata nell’inverno, riconoscibile dai suoi simboli, dalla Porta di Brandeburgo al lussuoso Hotel Adlon, dalla Fernsehturm alla Friedrichstrasse, la via dei negozi, dalla metropolitana alla Sprea che lambisce l’Isola dei Musei. Una città magica, in cui può davvero accadere di tutto, in cui si possono ancora immaginare spie, intrighi, ambiguità, agenti invecchiati, ormai senza divisa.

La frase: "Deve esserci una prova che sono io!".

Donata Ferrario

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