Una cella in due
Prima dei titoli di testa, commentati dalla hit nineties "Saturday night" di Whigfield, abbiamo Enzo Salvi e Maurizio Battista in mezzo alla campagna in mutande, per scoprire immediatamente che il primo è un avvocato d’affari abituato a muoversi ai limiti della legalità, mentre il secondo un disoccupato approdato al crimine per disoccupazione.
Sono loro i due che si trovano a dividere la cella suggerita dal titolo del primo lungometraggio diretto da Nicola Barnaba, di cui ricordiamo con grande piacere gli short "Brutti sogni" e "Building", proiettati anche in un paio di Fantafestival di fine XX secolo.
Lungometraggio che, scritto dallo stesso Salvi insieme al Luca Biglione regista di "Ultimi della classe", tira in ballo non pochi volti noti della romanità popolare, dal re delle notti mondane capitoline Massimo Marino al Nicola Di Gioia visto nella trasmissione "Stracult", passando per Riccardo Angelini e Mario Corsi, conosciuti dai tifosi giallorossi come Marione e Galopeira.
E, al di là dell’immancabile manipolo di bellezze comprendente l’ex gieffina Melita Toniolo, la Simona Borioni de "Le ultime 56 ore" e la cattiva di "Elisa di Rivombrosa" Jane Alexander, rispettivamente nei panni della moglie, dell’amante e della segretaria di Salvi, è soprattutto Massimo Ceccherini – qui impegnato a concedere anima e corpo ad un grottesco galeotto psicopatico che ringhia e mangia scarafaggi – a spalleggiare la simpatica coppia di protagonisti.
Perché, con evidente riferimento sia ai Buddy movie statunitensi che alla tipica commedia all’italiana (ricordando, però, più i film di Franco e Ciccio che quelli con Gassman e Tognazzi), quello di Barnaba, che sfoggia una non disprezzabile regia, si rivela ben presto essere un film atto a puntare soprattutto sulle facce, attraverso una struttura a sketches che provvede a riempire i circa novanta minuti avviati dall’esile idea di partenza.
Novanta minuti al cui interno le volgarità sembrano essere quasi del tutto (e per fortuna) assenti, tanto che la tipologia di comicità, la quale riesce a strappare qualche risata tramite gag come quella in cui Battista compie la rapina o l’altra che lo vede insieme a Salvi trovarsi nel bel mezzo di una veglia funebre, finisce per strizzare l’occhio soprattutto al pubblico dei bambini (si pensi anche alla sequenza in cui i due indossano i costumi dello "Zoomarine").
Quindi, è anche e soprattutto a causa di quest’ultimo aspetto che la non esaltante sceneggiatura, culminante in un epilogo piuttosto simile a quello del parentiano "Natale a Miami", raramente riesce nell’impresa di divertire lo spettatore adulto.
Seppur al servizio di un’operazione tutto sommato gradevole e ben ritmata di cui, inoltre, non bisogna sottovalutare un certo fondo di amarezza relativo al triste universo lavorativo dell’Italia "raccomandata" d’inizio terzo millennio.

La frase:
- "Tu’ padre che lavoro faceva?"
- "Niente"
- "E te?"
- "Je davo ‘na mano".

Francesco Lomuscio

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