Le tre scimmie
Troppo lento. Questo in sintesi è quello che si prova durante la visione di Three Monkeys del regista turco Nuri Bilge Ceylan, fattosi conoscere soprattutto per "Uzak" nel 2003 e per "Il piacere e l’amore (Iklimler)", premio Fipresci a Cannes nel 2006.
Il film parte bene, con un’intensa scena che fa sperare: in una notte buia, sotto la pioggia, un’auto guidata da un uomo insonnolito, viaggia su una strada solitaria, che si snoda all’interno di una fitta boscaglia. Pochi minuti e i fanali posteriori dell’auto sono risucchiati dal buio, finché, dal nero totale dello schermo, udiamo un grido lontano. L’uomo al volante, Servet, che è un ricco personaggio della scena politica, ha investito un uomo e, in preda al panico, fugge con la propria auto, lasciando il corpo abbandonato come un rifiuto in mezzo alla strada.
Servet si rivolgerà al suo autista, Eyüp e, in cambio di aiuto e denaro, gli proporrà un accordo: addossarsi la responsabilità dell’accaduto. Dopotutto, con un buon legale e con le attenuanti del caso, sconterà solo nove mesi in prigione. Ed Eyüp accetta. L’uomo vive in una squallida casa tra la linea ferroviaria e una grande strada: un’alta fetta di cemento e mattoni, che sembra dimenticata da tutti, pericolante. Durante i nove mesi di galera, Hacer, la bella moglie di Eyüp, intreccia una relazione clandestina con Servet, che le procura il denaro necessario ad Ismael, il figlio, per comperarsi un’auto. Dopotutto l’uomo glielo dice chiaro e tondo: "Se ha qualche problema, non esiti a contattarmi: farei qualsiasi cosa per lei".
Ismael scopre la madre e l’affronta con violenza.
Quando Eyüp esce di prigione tutti i nodi vengono al pettine e le verità taciute da ognuno dovranno essere affrontate. O no?

Le Tre scimmie di Nuri Bilge Ceylan sono quelle famose del "non vedo, non sento, non parlo", nient’altro che i protagonisti di questa triste vicenda di povertà, colpa, corruzione e di esili promesse di agiatezza.
Tutti qui sono corrotti e colpevoli, a partire dall’infimo Servet, che fugge da un crimine, sfrutta il suo dipendente e non esita ad approfittare della sensualità insoddisfatta dell’illusa Hacer, in un rapporto che è solo una compravendita.
Ceylan vuole dipingere una famiglia che si disgrega, perché distoglie gli occhi, tace, non ascolta: perdendo irrimediabilmente ogni verità da condividere, fino allo smarrimento del senso generale. Tre individui infelici che si lasciano vivere, passivamente, in un torpore continuo (spesso il figlio e la madre sono ripresi a letto o su un divano, in un dormiveglia obnubilante) per evitare decisioni e affrontare faccia a faccia la realtà. Il guaio è che il torpore coglie anche lo spettatore, estenuato dalle lunghe riprese senza una parola, dalla lentezza delle azioni e dei movimenti, che la splendida fotografia non riesce a riscattare.
Peccato, perché le premesse e le tematiche erano interessanti, così come certi spunti durante il film: lasciati tutti cadere, ahinoi!

La frase: "Sei ridicola. Vai a letto. Vieni giù da lì, oppure buttati!".

Giulia Baldacci

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