Invasion
“Sono tra noi”: erano secoli che non sentivamo pronunciare questa memorabile battuta da qualcuno che paresse crederci davvero. Ecco invece un’invasione in piena regola, silenziosa e sottilmente inquietante come da contratto, a ricordarci che potremmo non essere soli in quest’universo. Oliver Hirschbiegel, dopo il Bruno Ganz de “La caduta”, con raro volo pindarico dirige qui Nicole Kidman nel suo (arche)tipico ruolo di amorevole madre braccata: e ci trastulla coi primi piani stretti, lascia che si calchi la mano, insiste sul già visto. Ma si difende bene, o quasi.

Nel suo studio di psichiatra affermato, la bella Carol Bennell (Kidman, appunto) assiste dapprima impotente al progressivo ripetersi di copioni già visti: moltissimi dei suoi pazienti riferiscono di inspiegabili incidenti domestici, stravolgimento delle dinamiche familiari, strisciante terrore tra le mura di casa - il tutto all’insegna del “Mio marito non è mio marito”. Armata del solo ricettario, la dottoressa presto comprende che dietro tutto ciò non può che nascondersi qualcosa di vasto e spaventoso, in grado di minacciare l’intera comunità e lei stessa. Quando ad essere direttamente in pericolo è il suo cucciolo (Jackson Bond, musetto tenero per la prima volta al cinema), la leonessa smuoverà mari e monti per riabbracciarlo - senza fermarsi neanche davanti al politicamente scorretto, danni collaterali inclusi: vedere per credere. Accanto a lei, immancabile nel genere, lo spasimante di turno Ben (Daniel Craig, di intensità espressiva attualmente missing) la sopporta e supporta... finché alieno non vi separi.

Risale addirittura al 1955 lo storico romanzo di Jack Finney cui tutto deve il filone fantascientifico: com’è ovvio, molto è cambiato rispetto agli adattamenti cinematografici iperpoliticizzati ma distanti di Siegel (1956) e Kaufman (1978). Oggi gli Ultracorpi viaggiano sotto nomi differenti, più scientifici, credibili perché incomprensibili al profano: complicate spiegazioni sui meccanismi cellulari, su bioritmi umani e alieni, sui processi di modifica del Dna hanno soppiantato la bizzarra teoria del replicante seminato nel cortile di casa e pronto a sostituire l’originale umano, una volta fuori dall’improbabile baccello. Alla ricerca di una qualche verosimiglianza tecnica, il gioco si fa duro e la stessa platea presto è costretta a scegliere da che parte stare. No, nessuno sarà portato a tenere per il frigido alieno oppressore: il dilemma che anima lo spettatore si basa tutto sul credito che si decide o meno di regalare allo schermo. L’esito della scelta non è poi così prevedibile: più di una volta la sceneggiatura pecca di ingenuità (ma più spesso di presunzione), la comicità involontaria fa capolino da angoli impensati, il passo fatto è ben più lungo della gamba. Ma diffidate comunque di chi fa le parole crociate in metropolitana. O almeno, controllate che sudi.

La frase: "Che cosa ridicola! Il marito di quella donna era infetto da un virus alieno e io le ho prescritto degli antipsicotici.".

Domitilla Pirro

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