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Lo Hobbit: la desolazione di Smaug











Appena superati i titoli di testa, gli spettatori più attenti potrebbero scorgere il regista Peter Jackson in una fugace apparizione simile a quella già fatta dallo stesso ne “Il signore degli Anelli-La compagnia dell’anello” (2001) in questa continuazione de “Lo hobbit-Un viaggio inaspettato” (2012), tramite cui aveva aperto la trilogia volta a fare da prequel alle avventure di Frodo e amici, in quanto ambientata sessant’anni prima di esse. Continuazione che, ovviamente ancora tratta dalle pagine di J.R.R. Tolkien, vede Martin Freeman e Ian McKellan di nuovo nei panni di Bilbo Baggins e del mago Gandalf il Grigio, in viaggio verso Est con tredici nani guidati da Thorin Scudodiquercia, alias Richard Armitage, per la riconquista della Montagna Solitaria e del perduto Regno dei nani di Erebor, finito nelle mani del terribile drago Smaug. Drago di cui, come c’era da aspettarsi, non si attende altro che la spettacolare entrata in scena, destinata ad arrivare, però, soltanto nel corso dell’ultima parte delle circa due ore e quaranta di visione; destinate a tirare in ballo, tra gli altri, Beorn il cambia pelle, incarnato da Mikael Persbrandt e in grado di mutare il proprio aspetto da quello di uomo di grossa taglia a ben più grande orso, la minacciosa foresta di Bosco Altro e una banda di elfi capitanati da Tauriel, con le fattezze di Evangeline Lilly, insieme al ritrovato Legolas, interpretato come nella trilogia originale da Orlando Bloom. Senza contare la sequenza atta a coinvolgere un’orda di giganteschi ragni, che, se da un lato più delle altre lascia riconoscere il tocco dell’autore di “Meet the Feebles” (1989) e “King Kong” (2005), dall’altro mette a dura prova gli spettatori aracnofobici, che possono magari rifarsi con momenti maggiormente volti al divertimento come quello dello scontro eseguito sfruttando barili galleggianti in acqua. Perché, sorvolando sulla non troppo condivisibile scelta di girare la pellicola attraverso l’innovativa tecnologia digitale 3D a quarantotto fotogrammi al secondo che, intenta ad aumentare il realismo delle immagini, con la sua leggera velocizzazione sembra solo renderle sempre più vicine a quelle delle soap opera, è evidente che il senso dell’intrattenimento risulti tutt’altro che assente e che il lavoro svolto dal foltissimo team tecnico-artistico meriti esclusivamente lodi; però, man mano che i fotogrammi avanzano, non solo si prova l’impressione che questo secondo capitolo – co-sceneggiato come il precedente, tra gli altri, da Guillermo del Toro – sia tirato un po’ troppo per le lunghe, ma anche che l’inconfondibile impronta jacksoniana cominci a essere troppo abbandonata ad una tipologia di spettacolo che rischia di perdere il sapore di Settima arte in favore di quello di una sorta di video-promozione di giochi di ruolo. È chiaro, quindi, che a rimanerne soddisfatti saranno più gli irriducibili seguaci tolkieniani che i fan di colui che è stato definito lo Steven Spielberg neozelandese.

La frase:
- "Non cessa mai di sorprendermi"
- "Che cosa?"
- "Il coraggio degli hobbit".

a cura di Francesco Lomuscio

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