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Il curioso caso di Benjamin Button
Se io potessi vivere nuovamente la mia vita,
nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più,
sarei più stolto di quello che sono stato,
in verità prenderei poche cose sul serio.
Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne,
contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi.
Andrei in posti dove mai sono stato,
avrei più problemi reali e meno problemi immaginari.
Così inizia "Se io potessi", una delle più belle poesie di Jorge Luis Borges, ed è questo il concetto al centro di "Il caso curioso di Benjamin Button", e cioè la vita. Un tema semplice no? Si potrebbe dire che ogni film parli di vita, e di certo non si sbaglierebbe: ogni storia di una persona è si il percorso di uno, ma anche, al contempo l’unione di tanti eventi, emozioni, ragionamenti, di tanti che avranno provato, magari non esattamente uguali, ma simili, le stesse situazioni. Qui però il discorso è alla radice, non si parla di semplici punti in comune, di possibili interpretazioni. La storia di Benjamin Button, inventata (ma non è esattamente uguale al libro) da Francis Scott Fitzgerald in un racconto del 1922, è emblema delle esistenze di tutti perché di queste si preoccupa di prenderne l’aspetto cruciale: l’approccio alla vita. Benjamin Button nasce vecchio e crescendo ringiovanisce.
Potrebbe essere un freak, un uomo segnato, per la sua diversità, a rimanere ai margini, a nascondersi dall’occhio altrui, ma al contrario vive tranquillamente il suo essere differente, conscio che niente gli verrà precluso, né l’amore, né l’amicizia, né l’avventura. Non si impegna a superare limiti o a abbattere ostacoli, che siano la diffidenza o le problematiche reali (salvo nel finale, quando si "allontana") che il suo ringiovanimento porta di volta in volta, perché vive in pace con sé stesso. Non ci sono barriere se non le si vuole vedere. Benjamin Button diventa così forza motrice delle sfide che le persone che incontrerà nel suo percorso avevano preferito abbandonare, una sorta di angelo che non ha bisogno di parole per illuminare gli altri, ma a cui basta esserci per dimostrare da dove nasca la felicità (e in tal senso è perfetta la scelta di Brad Pitt: molto bravo, ma anche dotato della giusta bellezza necessaria per la forza del personaggio).
David Fincher, reduce dallo splendido e inquietante Zodiac, segue quasi senza volersi far notare la sceneggiatura magistralmente scritta (un film sulla vita di un uomo che va "al contrario" non poteva che iniziare da "una" fine) da Eric Roth, ma il suo è uno straordinario occhio "invisibile". La crescita di un amore fatto di affinità elettive, come quello tra Benjamin e Daisy, è costruito con abili giochi di luce, con inquadrature tanto intime, quanto mai invasive o ambigue. L’incedere, ora lento, ora veloce, dello scorrere del tempo che in Zodiac si sintetizzava nella splendida sequenza della costruzione dei grattacieli, qui diventa cuore pulsante di tutta l’opera. Non è solo lo straordinario trucco sul viso di Brad Pitt (per il quale è stato utilizzato un innovativo sistema di motion capture), ma tutto il film trasuda la volontà di ragionare sul rapporto tra cinema e cronologia (si veda ad esempio la ricostruzione dell’incidente di Daisy). La fotografia seppiata che rende polverosi i ricordi non è che una scelta fatta in tal senso: non è il cinema che fu, ma un cinema che ancora è, un cinema fatto di immagini curate, di emozioni suggerite e voglia di scavare dentro ognuno di noi.
La frase:
- "Sei così giovane"
- "Solo dall’esterno"
Andrea D'Addio
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