Stare fuori
Che ci si creda o no, esiste un cinema indipendente in Italia (pur se sempre dipendente di fatto dagli aiuti del Ministero dei beni culturali), con velleità che trascendono i terrificanti filoni adolescenziali e i cinepanettoni. Il progetto di Fabiomassimo Lozzi da questo punto di vista è estremamente ambizioso. Nel raccontare la ricerca del perduto amore di Giulio, il regista cerca di conferire al proprio racconto un'impronta fortemente autoriale e riconoscibile. Il suo studio dell'inquadratura e del montaggio, soprattutto nell'uso di dettagli fugaci e narrativamente "pregnanti", vuole restituire al cinema la caratteristica di segno, di ideogramma che trova la propria risoluzione nella purezza di un'immagine in grado di comunicare a livello viscerale e senza mediazioni.

Come si vede, una poetica molto ambiziosa che però si scontra con enormi problemi, soprattutto dal punto di vista della sceneggiatura e della messa in scena. Quello che viene rappresentato è in realtà il classico melodramma borghese. Come ogni melodramma borghese anche questo ha una vittima predestinata. Questi è Giulio, oggetto di un amore autentico solo fintantoché le apparenze vengono salvaguardate.
La sua provenienza siciliana rende il passaggio di Giulio a una nuova vita (dopo un evento estremamente traumatico) ancora più difficile, fino a tradursi in un laceramento dell'io insanabile. La linearità dell'esperienza del protagonista, sia pure nella sua assurdità, è però interrotta da una serie di elementi estranei che non aggiungono nulla. Gli altri personaggi (anche maschili) nutrono nei confronti di Giulio una pulsione di natura sensuale palpabile in più di un'occasione, tanto che spesso si può pensare che le persone che parlano stiano per baciarsi. Si tratta di un elemento forse almodovariano che però nulla aggiunge alla vicenda di Giulio. Resta in realtà solo un compiaciuto indugiare sulle statuarie nudità del giovane, senza che di questo vi sia una ragione stringente. La direzione degli attori ha poi spesso qualcosa che stona e non torna del tutto. Lozzi viene dal teatro ma sembra dimenticare la basilare differenza di recitazione nei due diversi ambiti. Così i pur bravi attori di "Stare fuori" sgranano gli occhi e si abbandonano a un espressività esasperata, che senza dubbio funziona sul palcoscenico, ma che spesso diventa artificiosa e irritante sul grande schermo.

Si tratta quindi di un progetto pensato e curato con molta passione ma in cui si sono voluti inserire elementi eterogenei e non del tutto congrui rispetto alla storia che si voleva raccontare, storia che spesso si trascina stancamente verso un finale alquanto prevedibile. Anche alcune soluzioni di regia francamente azzeccate si perdono in una messa in scena spesso confusa e autocompiaciuta.
Forse la verità è che il melodramma, genere ormai canonico del cinema italiano, è impossibile da rivitalizzare a prescindere dall'espediente narrativo usato. Un pò più di coraggio nella fase di scrittura forse gioverebbe ancora di più al lavoro del regista.
Tra i punti tuttavia apprezzabili (Stare Fuori non è un film "brutto" tout court, ma un lavoro ambizioso che si dibatte tra alcuni limiti oggettivi) resta quell'atmosfera hitchcockiana un po' alla Marnie e il personaggio angelico dell'editor, "correttore" per eccellenza e in tutti i sensi. La regia resta comunque interessante e promettente, a patto che riesca a dosare le sue innegabili doti in modo più convincente.

La frase: "Io qua ce so cresciuto, non metti le mano addosso a uno perché te da uno sguardo!".

Mauro Corso

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