Smetto quando voglio
Prima ancora dei titoli di testa accompagnati da “Why don’t you get a job?” degli Offspring, a mettere in atto una rapina vediamo impegnato Edoardo Leo, che poi scopriamo essere il ricercatore trentasettenne Pietro Zinni, a quanto pare costretto a intraprendere la vita criminale dopo il suo licenziamento conseguito ai tagli all’università.
Una vita criminale che Sydney Sibilia, qui al suo primo lungometraggio, fin dai primi minuti di visione racconta con toni tutt’altro che seriosi da fatti della Banda della Magliana, in quanto impossibili da prendere sul serio sono i diversi soggetti (mai termine potrebbe risultare più appropriato) progressivamente arruolati dal protagonista nella sua goffa gang, destinata a raccogliere non pochi euro tramite lo spaccio di una nuova droga all’interno di popolatissime discoteche romane.
Infatti, si va dai due grotteschi benzinai latinisti Mattia Argeri e Giorgio Sironi, con i volti di Valerio Aprea e Lorenzo Lavia, all’antropologo Andrea De Sanctis, ovvero Pietro Sermonti, assurdamente non assunto dal proprietario di uno sfasciacarrozze perché laureato; passando per l’archeologo Arturo Frantini alias Paolo Calabresi, operaio dell’asfalto, il massimo esperto in macroeconomia Bartolomeo Bonelli, interpretato da Libero De Rienzo e dipendente dal gioco d’azzardo, e, infine, il lavapiatti Alberto Petrelli, in realtà specializzato in chimica computazionale, cui concede anima e corpo lo Stefano Fresi che della citata combriccola del Freddo e il Libanese aveva fatto parte in “Romanzo criminale” di Michele Placido.
E, man mano che vediamo il gruppetto tanto arricchirsi quanto incapace di gestire nella giusta maniera il potere piombatogli tra le mani, non mancano neppure Valeria Solarino e Neri Marcoré nel corso della circa ora e quaranta di visione che, in mezzo a escort, Signori della malavita e intrallazzi tra professori e politici, invitano in non poche occasioni a ridere delle molte brutture dell’Italia del XXI secolo.
Riuscendoci sempre, oltretutto, perché, forte di un cast in stato di grazia, quella che il regista definisce giustamente “Una commedia acida, parodistica e ultra citazionista, in cui il dramma sociale viene ripreso solo ed esclusivamente come espediente comico” non si rivela essere altro che uno dei più promettenti, esplosivi e ottimamente ritmati debutti tricolori dietro la macchina da presa d’inizio terzo millennio.
Quindi, lo spettatore non solo esce dalla sala pienamente divertito, ma riflette anche su quanto amare possano essere le conseguenze di un sistema scolastico e lavorativo che non sembra volerne più sapere di funzionare in maniera onesta.
La frase:
"Mi raccomando ragazzi, dobbiamo mantenere lo stesso identico stile di vita di prima".
a cura di Francesco Lomuscio
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